[04/06/2016] 27° anniversario massacro di piazza Tienanmen. Commento di Tiziano Terzani [video]

La notte tra il 3 e 4 Giugno 1989 l’esercito cinese, con il tragico massacro di piazza Tienanmen, soffocò nel sangue la rivolta di studenti, operai e intellettuali uccidendo tra le duemila e le tremila persone. Carri armati contro i studenti inermi, ragazzi insanguinati e scene di guerriglia per le strade di Pechino. La crudele repressione è ancora oggetto di censura e abbandono.

Nella foto: alcuni corpi ammassati dopo la strage

La protesta infiammò la primavera dell’anno 1989 che si concluse col crollo del Muro di Berlino.

La censura, il potere sconfinato del PCC sui mezzi di comunicazione e la politica del terrore da esso attuata fanno si ché qualsiasi riferimento al “4 Giugno venga messo a tacere o costringere al silenzio.

Nel 2009 le versioni cinesi di CNN e BBC sono state “depurate” di qualsiasi riferimento al 4 Giugno di 27 anni fa.

Il provider di posta elettronica Hotmail fu bloccato da Pechino. L’Associazione Reporter Senza Frontiere informò che se un cinese provava a fare una ricerca per immagini su Baidu, uno dei più diffusi motore di ricerca del Paese, usando le parole chiave “4 Giugno”, s’imbatteva nella seguente risposta: “la ricerca non è compatibile con le leggi e i regolamenti”.

Il blocco sulle notizie è stato così efficace in tutti questi anni che Reporter Senza Frontiere affermò nel 2009 che “la gran dei giovani cinesi sono del tutto ignari di quel che accadde quella notte”.

Oggi le cose sono peggiorate, la censura è stata intensificata e le rivolte popolari sono aumentate.

Sun Liping, professore di sociologia presso l’università Qinghua di Pechino, ha anche aggiornato i dati relativi alla protesta pubblica: nel 2010 le rivolte popolari sono state circa 180mila, quasi 500 al giorno, e il doppio rispetto ai dati del 2006. Queste rivolte sono contro gli espropri di terre, la politica del figlio unico, la corruzione e contro il monopolio del potere da parte del partito Comunista.

Ecco cosa scrisse Tiziano Terzani sulla brutale repressione di Pechino su piazza Tienanmen nel suo libro “In Asia”, pag. 202, edito da Tea:

Cina: il dio due volte fallito

Tienanmen, 5 giugno 1989

Sulla Piazza Tienanmen il comunismo cinese aveva avuto il suo più grande trionfo. Su quella stessa piazza ha subito la sua più grande e irreversibile sconfitta. Questo straordinario movimento popolare, nato formalmente nel 1921 dopo anni di durissime lotte, era riuscito a unificare un immenso Paese, a dargli orgoglio e speranza e aveva permesso a Mao, su quella piazza, il primo ottobre 1949, di annunciare al mondo: «La Cina si è sollevata». Con il massacro di questi giorni ha perso ogni legittimità, ogni pretesa di moralità, ogni diritto a guidare questo popolo di oltre un miliardo di persone.

In quarant’anni al potere il Partito comunista cinese, tranne brevi periodi di pace, ha sottoposto il Paese a continue campagne politiche che hanno diviso la gente, a continui mutamenti di rotta che hanno confuso la nazione, a continue epurazioni che hanno bruciato i migliori elementi di ogni generazione. Ogni volta il partito era riuscito a cavarsela, a sopravvivere spiegando di aver capito i propri errori del passato e riaffermando al tempo stesso la giustezza delle proprie nuove posizioni.

Questa serie di errori, che dal 1949 a oggi sono costati milioni di vite, ha raggiunto il suo culmine col massacro di Tienamnen, dopo il quale nessuna giustificazione sarà più accettabile, nessuna promessa sarà creduta. Il partito ormai non può che restare al potere sulla forza dei fucili. Almeno finché questi gli obbediranno.

Per la Cina questa è un’immensa tragedia perché, ora che il partito comunista perde il «mandato del Cielo», nessun’altra forza è oggi in grado di sostituirglisi in un Paese che resta poverissimo e potenzialmente incline a frammentarsi. La Cina è fatta di varie regioni, ognuna con una sua identità e una storia.

I comunisti erano riusciti a tenere tutti sotto un tetto, a dare a tutti una lingua comune e a coinvolgere tutti nella speranza di uno sviluppo comune. Tutto questo ora rischia di spezzarsi, di dare luogo a regionalismi, a differenti centri di potere, com’era al tempo dei Signori della Guerra.

Tutte le regioni di frontiera di questo Paese sono abitate da popoli non cinesi che hanno tradizionali motivi di risentimento contro il potere centrale di Pechino. I comunisti erano riusciti – a volte con la violenza come nel caso del Tibet – a tenere questi popoli legati a sé e a proteggere così i propri confini. D’ora in poi questo potrà diventare difficile.

Che cosa ha fatto fallire il grande progetto comunista di fare della Cina un Paese moderno, forte, indipendente? La risposta è semplice: la natura stessa del comunismo. L’ideologia totalitaria del movimento gli ha dato la forza di battersi contro l’invasione giapponese, di vincere la guerra civile, ma, una volta al potere, quella natura totalitaria lo ha indebolito intellettualmente perché ha eliminato ogni discussione, ha frustrato ogni ripensamento.

Il Partito comunista cinese, con la sua base contadina, diretto da un «imperatore» contadino come Mao prima e Deng Xiao-ping poi, ha sempre visto i suoi principali nemici fra gli intellettuali e, a scadenze quasi regolari, ha eliminato le teste più libere di ogni generazione. Ogni volta che si levava una voce indipendente contro il partito, questa veniva repressa.

A suo modo il massacro dei giovani sulla piazza Tienanmen, e ora la caccia allo studente nelle università, rientra nella stessa tradizione che ha avuto le sue tappe nella campagna contro la destra seguita ai Cento Fiori e nella Rivoluzione culturale. Questa volta il movimento guidato dagli studenti è stato più forte di sempre, perché si è innestato sui risentimenti di vari settori della popolazione, specie urbana, frustrata da decenni di miserie prodotte dagli errori politici del partito.

Non c’è alcun dubbio ormai che i moti di Pechino, incominciati con il funerale di Hu Yaobang, sono stati la prima massiccia insurrezione popolare contro il regime comunista cinese. In questo senso l’argomento del regime secondo cui l’esercito è dovuto intervenire per soffocare un «complotto controrivoluzionario» è fondamentalmente corretto.

Nonostante gli studenti cantassero l’ Internazionale e marciassero all’insegna di bandiere rosse, il loro movimento era anticomunista, anche se, per ovvie ragioni tattiche, non hanno mai apertamente chiesto il rovesciamento del sistema. La tragica ironia di tutto questo è che l’uomo che più è stato preso di mira dagli studenti e dalla popolazione è proprio quello che ha avviato il processo di liberalizzazione della Cina e che ha messo in moto le riforme economiche: Deng Xiaoping. Sono indubbiamente state le sue riforme, sono state le forze da lui liberate a portare alla sfida anticomunista e, per reazione, al massacro.

Mao aveva imposto alla Cina un regime tutto fondato sull’ideologia a scapito dei risultati economici. Deng ha rovesciato la politica, mettendo da parte l’ideologia e puntando tutto sullo sviluppo, nell’illusione di poter liberalizzare il sistema economico, mantenendo immutato il sistema politico. Il risultato è stato la crescente richiesta di libertà che, soffocata una prima volta nel 1979 (con la soppressione del «muro della democrazia»), è esplosa nelle manifestazioni popolari dei giorni scorsi.

Deng Xiaoping, il grande illusionista, che era riuscito a convincere gran parte del mondo occidentale di essere l’uomo della storia che lentamente stava disfacendo il sistema socialista, s’è rivelato l’uomo del partito, il comunista che ha lanciato un bagno di sangue per reimporre il suo sistema totalitario.

Non è strano. Lo stesso Deng Xiaoping che in Cambogia ha appoggiato Pol Pot e ha continuato a sostenere e a rifornire di armi i khmer rossi anche dopo che i loro massacri erano noti al mondo è quello che ha ordinato il massacro della sua gente.

In verità, la sua è una tragica figura perché, avendo cercato di salvare il comunismo cinese dal fallimento della sua versione maoista, ha finito per decretarne la morte e per lasciare il Paese in condizioni ancor più disperate di quelle in cui l’aveva lasciato Mao.

L’introduzione, da parte di Deng, di meccanismi di tipo capitalistico nel sistema economico, l’aprire la porta cinese agli interessi stranieri hanno sì creato un clima di maggiore benessere, ma hanno anche esacerbato le contraddizioni congenite nella struttura di questo Paese: le zone costiere si sono sviluppate molto di più che le regioni dell’interno, gli interessi stranieri si sono concentrati di nuovo là dove nel periodo coloniale erano più forti.

Deng ha rimosso l’ideologia maoista che a suo modo imponeva un’etica rivoluzionaria di egualitarismo, ma non l’ha sostituita con un sistema di diritto. Gli operai nelle fabbriche hanno perso i benefici del collettivismo, senza guadagnare quelli di un sistema capitalistico.

Sballottata da una logica maoista, in cui essere poveri era una virtù, a una logica denghiana in cui «diventare ricco è glorioso», un’intera generazione di cinesi si è trovata a crescere senza eroi, senza ideali e sempre più attratta, specie nelle città, dal tipo di consumismo occidentale che la stragrande maggioranza dei cinesi non ha certo ancora modo di permettersi.

Bisogna rendersi conto che dietro la vampata d’indignazione per il massacro, dietro le proteste e le barricate che ora si levano in varie città della Cina, creando le condizioni per altri interventi sanguinosi dell’esercito, non c’è un’idea comune, non c’è un progetto alternativo di società.
Gli studenti, divisi fra una certa nostalgia della moralità maoista e il sogno di democrazia e benessere occidentali, vogliono più libertà. Gli operai vogliono più benessere. A essi si sono unite le bande di disoccupati delle città.

Per ora il movimento, pur con milioni di persone nelle strade, è limitato alle città. Gli 800 milioni di contadini, divisi fra quelli che le riforme di Deng hanno impoverito e quelli che si sono rapidamente arricchiti, non si sono mossi, non si sono espressi. È su quella massa contadina che il regime conta forse per mantenere una sua base di legittimità, per giustificare la sua sanguinosa repressione. Uno degli apparati che, con tutte le sue riforme, Deng non ha smantellato, ma anzi ha rafforzato, è quello della sicurezza che è ora entrato in funzione con tutta la sua macabra efficienza. Il confronto è tutt’altro che finito.

La rivoluzione comunista è fallita, ma la Cina, prima di ritrovare l’unità e una sua via di sviluppo, dovrà passare attraverso altre prove e forse altri massacri.

Gianni Taeshin Da Valle,Laogai Research Foundation,01/06/2016

 

 

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