A caccia di terre rare. Perché alla Cina interessa tanto l’Afghanistan
I Talebani stanno seduti su un trilione di dollari di patrimonio minerario, vitale per la contesa economica e tecnologica globale.
Lo sanno. A noi possono sembrare sprovveduti, anche ridicoli – per la nostra ottica occidentale – vestiti con i loro abiti tradizionali, la Shalwar kamiz, che dà l’impressione che indossino la gonna, e il loro copricapo caratteristico, il Pakol, ma di certo i capi dei talebani che hanno ripreso il potere in Afghanistan dopo vent’anni, umiliando la prima potenza mondiale, gli Usa, e portando la seconda, la Cina, a trattare con loro, sono tutto tranne che degli sprovveduti o, peggio, degli stupidi. Per questo sanno, e sapevano, molto bene che il loro paese è oggi la più grande miniera di minerali preziosi non sfruttata del Pianeta. Una ricchezza favolosa, fatta di giacimenti di cobalto, oro, rame e, soprattutto, le ormai famose “terre rare” (Rare Earth Elements, in sigla REE): elementi dal valore inestimabile, per il nostro mondo iper-tecnologico, per i quali vale la pena di combattere guerre, più che per il petrolio. Non c’è solo oppio – e traffico di stupefacenti – dunque, nell’economia afghana, gestita dai Signori della Guerra talebani.
In cima alla piramide sta il litio, senza il quale – lo sappiamo bene ormai tutti noi – le batterie dei nostri smartphone avrebbero un’autonomia di mezz’ora, non esisterebbero le automobili elettriche, i droni e qualsiasi apparato tecnologico che ha bisogno di energia per funzionare: soprattutto gli apparanti di difesa e armamento degli eserciti. E sotto i piedi dei Talebani di Litio ce n’è così tanto, da consentire ai geologi di coniare per il Paese dei Barbuti la definizione di “Arabia Saudita del Litio”. Ovvero, così come i Sauditi siedono su un mare di petrolio, gli Afghani su un oceano di Litio. E poi ancora gli elementi più rari – per questo si chiamano “terre rare” – e per questo ancora più preziosi e ormai vitali per fabbricare qualsiasi apparato hi-tech: telefoni cellulari, televisori, motori ibridi, ma anche per la tecnologia a laser e le batterie. E poi, lo dicevamo, per le apparecchiature militari: sistemi di navigazione per carri armati, componenti e sistemi di guida missilistica, satelliti e sistemi di comunicazione militari. Altro che oro e diamanti, o petrolio: ormai roba da secolo scorso.
Secondo studi recenti, sotto i piedi dei nuovi talebani ci sarebbe un controvalore potenziale da estrarre stimato – prudentemente – mille miliardi (un trilione) di dollari, ma che potrebbe arrivare a tremila miliardi, tre trilioni… curiosamente, sono le stesse cifre, tra minimo e massimo, che circolano, insistentemente, dopo la vergognosa ritirata americana, per quantificare i soldi spesi – inutilmente – dalla coalizione occidentale, nei vent’anni di presenza in Afghanistan.
Gli americani lo sapevano molto bene cosa ci fosse nel sottosuolo afghano, fin dal 2006, quando l’apposita agenzia scientifica governativa, la United States Geological Survey (USGS), diede il via ai rilevamenti aerei delle risorse minerarie dell’Afghanistan, con l’ausilio di apparecchiature avanzate installate su di un aereo Orion P-3 della Marina statunitense, per la misurazione gravitazionale e magnetica. Dopo i risultati strabilianti delle prime indagini, nel 2007 l’USGS diede il via a quelle che vennero definite “le “più complete indagini geologiche mai condotte” in Afghanistan. I risultati lasciarono tutti a bocca aperta: il sottosuolo afghano conteneva fino a 60 milioni di tonnellate di rame e fino a 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, e poi vene di alluminio, oro, argento, zinco, mercurio e litio. E - ancora più rilevante - sottoterra c’erano – e ci sono ancora - 1,4 milioni di tonnellate di Rare Earth Elements (REE), come lantanio, cerio, neodimio e altri preziosissimi minerali. E questo soltanto nel distretto di Khanneshin, nella provincia Meridionale di Helmand, facendo così delle risorse di Terre Rare dell’Afghanistan, le riserve più rilevanti al mondo.
Delle incredibili ricchezze minerarie afghane erano al corrente, ancor prima, già i russi, che nel corso di ricerche ed esperimenti minerari condotti segretamente durante l’occupazione sovietica negli Anni ’80, avevano raccolto una corposa documentazione. Nel 1989, dopo il ritiro dei sovietici, questa documentazione segreta venne versata nella biblioteca dell’Afghan Geological Survey a Kabul: ma subito venne fatta scomparire dai ricercatori afghani del tempo, che la restituirono solo nel 2001. Tre anni dopo, nel 2004, Washington decise di inviare in Afghanistan una squadra di geologi statunitensi, parte di un progetto più vasto per la ricostruzione del Paese. La task force USA, si imbatté allora, quasi per caso, in alcuni faldoni che contenevano i vecchi grafici e i dati, depositati, nascosti e poi nuovamente depositati, nella biblioteca di Kabul.
Il perché, poi, gli americani non abbiano cercato di sfruttare queste immense ricchezze, avendo avuto 20 anni di tempo per farlo, resta un mistero. O forse contribuisce anch’esso a dare la misura di quanto la presenza Usa nel Paese sia stata precaria, poco incisiva, con pochissimo controllo effettivo del terreno - rimasto sostanzialmente nelle mani dei potenti signori della guerra talebani – malgrado le incredibili risorse economiche, militari e di intelligence, messe in campo.
Chi invece è pronto a sfruttare tutto ciò, e sicuramente non perderà tempo a gingillarsi tra incertezze politiche e inadeguatezze militari, è senz’altro la Cina, che da tempo ha fatto del dominio globale delle risorse di Terre Rare uno dei punti di forza – forse uno dei più importanti – nei confronti del debole e ormai inadeguato Occidente. Mentre gli americani e noi occidentali, perdevamo tempo, montagne di soldi e vite umane in Afghanistan, negli ultimi due decenni la Cina monopolizzava oltre l′80% della produzione mondiale di elementi di terre rare e prodotti chimici trasformati. E non ha mai esitato a servirsi di questa sua posizione dominante, anzi assolutamente egemonica, a fini politici e strategici. Nel 2010 ha tagliato le esportazioni in Giappone per via delle crescenti tensioni sulle dispute territoriali nel Mar della Cina orientale e l’anno successivo ha imposto quote di esportazione che hanno gettato nel panico governi e produttori.
I numeri sono da brivido, secondo gli ultimi dati disponibili: In Argentina la Cina controlla il 41 % della produzione e il 37% delle riserve di terre rare; in Australia il 58% della produzione e il 19% delle riserve; In Bolivia, le cui riserve si ritengono le più grandi del Mondo (ma probabilmente dopo quelle ancora non sfruttate dell’Afghanistan), la Cina partecipa al 100% nel settore tramite un accordo azionario; In Brasile partecipa al 100% della produzione; in Cile al 67%, nella Repubblica popolare del Congo influenza oltre il 52% della produzione di cobalto con quote di partecipazione e accordi di fornitura; in Sudafrica partecipa ai due terzi di tutti i principali siti di estrazione e lavorazione. La Cina si sta anche dimostrando molto agile nell’adattarsi alle condizioni dei paesi democratici orientati al mercato, usando società private che sono sostenute dal capitale dello stato. Acquisendo in modo incrementale quote azionarie in importanti società di risorse locali e finanziando sviluppatori junior, le imprese cinesi stanno rafforzando la loro presenza sul mercato, superando le preoccupazioni locali sul controllo straniero delle risorse interne strategiche, come il niobio in Brasile e il tantalio in Australia. E in soli sei anni, la Cina è arrivata a dominare il mercato globale del litio. Infatti, anche se vanta una ricca dotazione di risorse naturali a casa sua, la Cina non ha riserve significative di tre risorse minerarie che sono vitali per le sue ambizioni tecnologiche: cobalto, metalli del gruppo del platino e appunto litio. Per questo, per garantirsene il controllo, ha messo in atto strategie mirate molto efficaci: e ovviamente non si è lasciata sfuggire la ghiotta opportunità rappresentata dalla debacle americana in Afghanistan.
La Cina, da tempo, sta anche cercando di espandere la sua posizione dominante sul mercato del vanadio e della grafite, assicurando forniture aggiuntive e costruendo catene di approvvigionamento integrate. Il vanadio è un metallo di transizione utilizzato nelle batterie a flusso, nei magneti superconduttori e nelle leghe ad alta resistenza per motori a reazione e aerei supersonici. Le aziende cinesi producono già il 56% del vanadio mondiale a livello nazionale e la Cina ospita il 48% delle riserve mondiali. Ma a Pechino non basta e va a fare compere anche in Russia, nell’ambito di quella che, dopo l’asse che si è creato tra Pechino e Mosca sulla questione talebana, La Cina ha definito “un’alleanza invincibile”.
Ora, con l’obiettivo nemmeno tanto celato di accumulare ciò che il Dipartimento dell’Energia cinese chiama “scorte considerevoli” di REE, La Cina è più che mai ansiosa di sviluppare la ricchezza mineraria dell’Afghanistan. Pechino ha già ottenuto i diritti di esplorazione per i giacimenti di rame, carbone, petrolio e litio in tutto l’Afghanistan, ed esistono rapporti di intelligence attendibili secondo i quali tempo fa ha ottenuto i diritti per sviluppare una miniera di rame corrompendo i funzionari minerari afghani.
Del resto, La Cina ha una lunga tradizione di lungimiranza nelle sue politiche economiche e strategiche, persino su una materia – come il predominio sullo sfruttamento delle Terre Rare nel Mondo – che è diventato di assoluta attualità e rilevanza soltanto in anni relativamente recenti, grazie all’immenso sviluppo delle nuove tecnologie.
Basti ricordare che, fin dal lontano anno 1990 - quando il resto del mondo era in tutt’altre faccende affaccendato e la Cina non era certamente quella superpotenza globale che è oggi – il governo cinese dichiarava già gli elementi delle terre rare una “risorsa strategica” e proibiva gli investimenti stranieri nel settore. A quel tempo governava a Pechino il presidente Yang Shangkun, che partecipò alla Lunga Marcia e sostenne Mao Zedong. Anche se dietro di lui, a gestire effettivamente il potere, c’era un già potentissimo Deng Xiaoping, allora presidente della Commissione Militare Centrale.
Chissà se Yang e Deng avrebbero mai immaginato che, tre decenni più tardi, un loro successore avrebbe stretto la mano a un feroce movimento estremista islamico, e che la merce di scambio non sarebbe stata mitra e fucili, ma minerali rari. Non si può certo dire i cinesi che non siano stati capaci di guardare lontano.
Fonte: HUFFPOST, 18/08/2021
Notizia in inglese, CNBC:
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