Addio ai confezionisti della Valle d’Itria, made in Italy sempre più cinese
Dove lavoravano i mitici “cappottari”, oggi cuciono, tagliano e confezionano sempre più i cinesi.
L’ultimo laboratorio clandestino è stato scoperto dalla Polizia di recente, nelle campagne della Valle d’Itria. Tra vacche, muretti a secco e trulli, ecco spuntare dal nulla quattro mura zeppe di operai “invisibili”, infaticabili e sfruttati. E’ la delocalizzazione del Terzo Millennio, ancora peggiore di quella di qualche anno fa, perché non si va più all’estero – Cina, ma anche Romania, Bulgaria e Turchia - a produrre abbigliamento “low cost”, ma è più semplice ed economico farlo direttamente qui, perché i lavoratori cinesi vengono loro da noi.
Siamo a Martina Franca, la Prato della provincia di Taranto, un tempo fulcro del fiorente distretto delle confezioni, 10mila addetti nell’epoca d’oro degli anni ‘80, ora ridotti a poche migliaia: il tessuto industriale si è letteralmente sfilacciato. Ciò che sopravvive di questo Made in Italy lo fanno le poche aziende che hanno resistito, scommettendo sulla qualità e sull’artigianalità delle maestranze, e quelle pochissime che si sono “reinventate” grazie ad operazioni di workers buyout: aziende decotte acquistate dai dipendenti e rilanciate attraverso cooperative. Il resto, si capisce, lo fanno operai made in China.
Sono sempre più in difficoltà, invece, i contoterzisti che producevano capispalla per le grandi griffe o i brand locali. Un pezzo di storia industriale e produttiva finita in malora. Passato di moda o forse, semplicemente, passato di mano. Perché quello dei laboratori cinesi, a sentire la Filctem-Cgil, è solo la superficie del problema. È sotto che bisogna guardare. E scavare.
«Auspichiamo che gli inquirenti approfondiscano le indagini – ha detto a caldo il segretario della Filctem Cgil di Taranto Giordano Fumarola - perché la presenza di laboratori clandestini sul territorio non può essere solo un argomento di cronaca, poiché sono ormai palesemente connessi con la crisi del settore manifatturiero locale». La spia rossa accesa, insomma, per segnalare un problema che va avanti dal 2008 e che, ora più che mai, «pretende risposte rapide e concrete da parte di tutti gli attori sociali sul territorio».
Il sindacato chiede una risposta forte soprattutto da parte di Confindustria e la convocazione di «un tavolo anche con le Istituzioni per discutere di come conoscere meglio il fenomeno e di come affrontarlo, evitando di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri». «Il profondo disagio – rimarca la Filctem Cgil - causato dalla precarietà di tantissime famiglie di Martina Franca, infatti, non può e non deve riversarsi sui lavoratori, stranieri o italiani, che sono costretti a vivere e lavorare in condizioni disumane». «Molte aziende - aggiunge Fumarola - si fregiano del marchio Made in Italy, e magari pezzi della propria produzione viene affidata a questi laboratori clandestini. Vorremmo che questo marchio fosse carico di significati anche e soprattutto sociali, di rispetto dei contratti e dei diritti dei cittadini e dei lavoratori».
Il rischio, si legge tra le righe, è quello di una concorrenza al ribasso senza qualità e senza diritti, che non riguarda solo i lavoratori cinesi ma anche quelli italiani: «La cancrena in cui versa la maggior parte del tessuto economico locale, quello legato al manifatturiero, - è la tesi del segretario Filctem - non è stata determinata da una serie di casualità, ma da scelte nette di chi ha preferito la ricchezza personale e a breve termine rispetto ad investimenti che guardavano anche alla crescita del territorio. La presenza di laboratori clandestini è un’altra declinazione dell’outsourcing, che ha rinsecchito la vitalità economica di Martina Franca».
Una crisi pesante che ha investito tutta la Puglia imprenditoriale impegnata nel comparto tessile-abbigliamento, sprofondato dalle quasi 6mila aziende del 2001 alle 3100 del 2014, con un export passato dai 390 milioni del 2002 a 290, sempre nel 2014. Sono i numeri disastrosi da cui, un anno dopo, è partito il “Progetto reshoring”, il tentativo corale messo in piedi da Ministero dello Sviluppo economico, Sistema Moda Italia e Regione Puglia per incentivare il rientro alla base di aziende e marchi. Riportare, cioè, le produzioni di “Made in Italy” in Italia, in Puglia e nella stessa Martina Franca, sede del Distretto Filiera Moda Puglia, con una grande operazione di delocalizzazione di ritorno. Un bel progetto al quale, a giudicare dall’allarme lanciato dalla Filctem, hanno dato credito soprattutto i cinesi.
Affari Italiani, 20 febbraio 2017
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