Anche la Cina vive la sua tangentopoli: lo scoppio della crisi siderurgica

Lo scandalo dell’acciaio in Cina è nato a seguito dell’emergere del “caso Rio Tinto”, un affaire che sta facendo tremare i principali investitori esteri. Rio Tinto è appunto un importante gruppo minerario anglo-australiano che prende il nome dal fiume dell’Andalusia. Si tratta di una vicenda davvero intricata, ricca di inchieste per spionaggio industriale e corruzione, le quali stanno paralizzando e danneggiando la crescita della nazione asiatica. È uno scandalo, inoltre, che non coinvolge solo l’economia, in quanto sta costringendo il governo nazionale a ridefinire l’equilibrio tra potere del business e quello del partito. Le multinazionali e i principali colossi delle materie prime si stanno ora confrontando per mettere a punto una scelta del tutto nuova: le alternative sono il ripensamento delle forniture a Pechino, una soluzione che però potrebbe pregiudicare la ripresa globale, oppure far finta di niente, rischiando in tal modo, tuttavia, di avere a che fare con miliardarie richieste di risarcimento.

Si è comunque giunti, finalmente, dopo un mese di ininterrotta incertezza, a una conciliazione diplomatica sostanziale, in quanto il governo è riuscito a riprendere in mano la situazione. Non c’è comunque da rimanere tranquilli: sono in effetti previsti numerosi arresti all’interno di ben undici gruppo siderurgici cinesi. Vi sono, tra l’altro, alcune coincidenze che stanno allarmando, e non poco, cancellerie e Borse internazionali, ma che confermano anche la trattabilità di un giallo sempre più politico e meno economico. Bisogna ricordare che la Cina rappresenta il primo produttore e consumatore al mondo di acciaio. Le accuse che hanno coinvolto l’australiano Stern Hu e i suoi tre collaboratori cinesi sono state a dir poco scioccanti: spionaggio e attentato ai segreti di Stato. In sei anni, distribuendo ingenti mazzette, il gruppo sarebbe riuscito ad alterare il mercato delle materie prime, gonfiando così i prezzi dei minerali di ferro.

All’inizio sembrava trattarsi di un maldestro tentativo di protezionismo economico, con l’obiettivo di sottrarre all’Occidente il prezzo di materie prime strategiche e ricondurlo sotto la disponibilità cinese, mentre ora ci si accorge che è in corso una forte rifocalizzazione politica del ruolo della nazione asiatica e della sua leadership globale. C’è anche da dire che la recente fusione tra Rio Tinto e la britannica Bhp, a danno della cinese Chinalco, è stata messa in discussione dai giudici, anche se altre inchieste statunitensi hanno messo in luce l’assurdità delle accuse. È certo, in un momento come questo, nessuno al mondo d’oggi può permettersi gli effetti di un tale scandalo: la scelta tra il considerare delinquenti i vertici di uno dei colossi internazionali delle materie prime, o accettare la vendetta protezionistica della crescita globale non può essere praticata in alcun modo.

Fonte: WebMagazine, 18 agosto 2009

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