Appunti di viaggio di un “non turista per caso” dal Nepal al Tibet. Intervista in esclusiva.
M.L. di Napoli (desidera mantenere l’anonimato), turista “non per caso”, ha rilasciato un’intervista in esclusiva alla Laogai Research Foundation sul suo tour di due settimane tra il Nepal il Tibet nel settembre del 2007 con guide del posto, nei luoghi sensibili che ancora oggi vedono l’insorgere di tante manifestazioni di protesta nei confronti della politica di repressione del regime cinese.
LRF: Qual era stato il primo luogo che avevate visitato appena giunti?
M.L: Giunti in Nepal, dove ci fermammo 10 giorni, il primo luogo fu Katmandū, la capitale.
Foto scattate da M.L.: a sinistra Katmandù,il tempio dedicato a Padmasambhava,a destra un quartiere tibetano.
L.R.F.: Come è stata l’accoglienza delle persone del luogo?
M.L.: I residenti erano molto cordiali e la situazione rilassata, del tutto normale. I molti monaci presenti erano liberi di andare ovunque e di intrattenersi a parlare con chiunque.
L.R.F.: Avevate notato la presenza di forze di polizia cinese? Siete stati fermati per controllare i vostri documenti?
M.L.: No non so se tra la popolazione ci fossero degli infiltrati in borghese o dei collaboratori. Non notammo nessun comportamento che potesse far pensare a dei controlli a distanza. Questo lo riscontammo durante tutto il nostro periodo di permanenza in Nepal. Appena terminammo il nostro girovagare andammo all’ambasciata cinese a Katmandū per ottenere il visto di ingresso per il Tibet.
L.R.F.: All’ambasciata cinese avete avuto problemi?
M.L.: non particolari difficoltà per ottenere il visto, ma hanno voluto una cospicua somma di denaro in dollari in cambio e ci domandarono quale era lo scopo della nostra visita. A questo punto intervenne la nostra guida che ci accompagnava e parlò con gli agenti.
L.R.F.: Una volta in Tibet quale città avete visitato?
M.L.: Lhasa
L.R.F.: Lhasa che impressione vi ha suscitato?
M.L.: Il primo impatto appena poggiato piede sul suolo di Lhasa fu l’esatto opposto di quello di Katmandū. Mi ha impressionato il notevole numero delle forze di polizia cinese ben armate che presidiavano le diverse aree del territorio. Era evidente il significato: predominio, controllo totale costruito con il terrore e persecuzioni. Il clima di tensione che si respirava era palpabile, quasi si poteva toccare. Nel gruppo aleggiava un senso di disagio e questo clima si poteva notare attorno a noi, nei volti della popolazione, nei sguardi dei monaci.
L.R.F.: Siete stati bloccati per controlli?
M.L.: Innanzi tutto era chiaro che venivamo controllati a distanza o da forze di polizia cinese in borghese o da collaboratori del regime e comunque ci fermarono alcune volte ma gli interventi della nostra guida locale si dimostrarono di basilare importanza e ci misero in condizione di proseguire immediatamente il cammino. La guida era un punto di riferimento per le autorità locali, molto probabilmente faceva parte di quella rosa di persone di fiducia scelte dal regime. Senza ombra di dubbio essere privi di una figura di questo tipo avrebbe portato ad accertamenti più capillari e avrebbe potuto compromettere il buon proseguimento del viaggio.
L.R.F.: Vi sentivate liberi di andare ovunque e iniziare una qualsiasi forma di conversazione?
M.L.: Come ho fatto notare precedentemente nell’aria si avvertiva il controllo, il timore e la popolazione era ostacolata dall’iniziare una qualche forma di dialogo; vivevano in una palese condizione di paura e anche noi eravamo consapevoli che non potevamo considerarci liberi di andare ovunque o intrattenerci con altre persone. Innanzi tutto per salvaguardare la loro incolumità e poi la nostra. La prudenza era un obbligo, se fosse venuta meno avremmo potuto causare seri problemi a tutti, noi compresi.
L.R.F.: Per terminare che cosa vorresti aggiungere a quanto fin qui affermato?
M.L.: Francamente, non so dire se adesso nel 2015 la situazione sia migliorata rispetto al mio soggiorno in Tibet nel 2007. Ma posso testimoniare di aver percepito un certo disagio tra la popolazione “indigena”; sguardi sofferenti di persone che hanno visto atrocità di ogni genere e un regime totalitario privo di qualsiasi scrupolo di coscienza.
Conclusione
“La questione tibetana è ormai nota a tutti al giorno d’oggi e tristemente attuale. Dal 2007 a oggi la situazione è notevolmente peggiorata( vedi Rapporto annuale TCHRD). La folle ideologia delle autorità cinesi che è messa in essere è chiara, costringe i tibetani a manifestare e quando ciò accade la crudeltà del regime può agire con la sua mano violenta. L’occidente continua a chiudere gli occhi davanti alla potenza cinese, senza intraprendere iniziative concrete contro questa drammatica situazione. Il capitalismo ha permesso il trionfo del demone della violenza. Questo demone non fa più riconoscere “il puzzo” dell’orrore. Ci ha reso incapaci di avvertire una vera e profonda angoscia, indice del “raffreddamento” dei nostri sentimenti che vanno a modificare negativamente le nostre capacità di pensare, agire, nell’assumerci delle responsabilità e tutto si ripercuote nelle relazioni con gli altri, nella società. Questo mondo è il frutto delle nostre scellerate scelte che si consumeranno nella ignominia del silenzio e dell’indifferenza.”
Gianni Taeshin Da Valle, Laogai Research Foundation,10/04/2015
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