Bruciare per il Tibet
“Abbiamo letto la notizia”. E’ tutto quello che ha da dire la portavoce del ministero degli Esteri cinese Jiang Yu sulla nuova immolazione, la decima, di un monaco tibetano. Nessuna conferma ufficiale, insomma, e la solita dichiarazione in conferenza stampa: Pechino “non accetta interferenze nei suoi affari interni in nome della religione”. A dare la notizia gruppi di esuli tibetani: il monaco si è dato fuoco in un’ area a popolazione tibetana della provincia del Sichuan. Dawa Tsering, 31 anni, si è immolato durante una funzione presso il monastero di Kardze, invocando il ritorno del Dalai Lama e l’indipendenza del Tibet. Soccorso immediatamente dai presenti che hanno cercato di estinguere le fiamme, il monaco è stato portato in ospedale. Secondo quanto riferito da un altro monaco del monastero, sembra che Dawa abbia rifiutato i trattamenti medici, chiedendo di essere lasciato morire. Dalle informazioni disponibili pare che avesse gravi bruciature sulla testa e sul collo. Esclusa per lui da parte dei medici la possibilità di sopravvivenza, vista la profondita’ delle ustioni, gli altri monaci lo avrebbero riportato al monastero. Dawa Tsering si trovava al monastero di Kardze da sette anni, aveva partecipato alle varie manifestazioni e proteste di piazza pro-Tibet nonostante la repressione della polizia cinese. Finora sono dieci, dall’inizio dell’anno, i tibetani, monaci soprattutto, che si sono immolati per la causa dell’indipendenza. Cinque sono morti. L’ultimo caso si era verificato la scorsa settimana, quando una suora si era data fuoco ed era morta nella prefettura di Ngaba (Aba per i cinesi). Le morti dei monaci segnano un ulteriore, drammatico deterioramento nelle relazioni di Pechino con la popolazione del tibet, che da anni reclama indipendenza e rivendica la piena autonomia delle autorità religiose nella nomina della prossima reicarnazione del Dalai Lama. Pechino accusa quella che definisce ‘teocrazia buddista’ di cospirazione contro l’unità nazionale ispirata da potenze straniere: il problema non è solo il Tibet ma una regione più vasta del territorio cinese con forte presenza di popolazione di origine tibetana. Un’increspatura del monolite cinese in Tibet aprirebbe crepe profonde là dove vivono altre minoranze di rilievo in Cina, a cominciare da quella islamica. L’attuale Dalai Lama nel 1995 ha riconosciuto Gendhun Choekyi Nyima, un bambino di 6 anni, come l’undicesimo Panchen Lama: Pechino lo ha fatto arrestare tre giorni dopo e ha indicato il ‘suo’ Panchen Lama, Gyaltsen Norbu, oggi 21enne. Da allora le autorità cinesi non hanno fornito alcuna informazione sulla sorte del bambino e della sua famiglia. La risposta del Dalai Lama è stata non violenta ma decisa: nessuno può indicare la sua prossima reincarnazione. Tanto meno chi la indica in un cinese con il compioto di tenere sotto controllo il Tibet.
Fonte: Rai News 24, 26 ottobre 2011
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