Calano a picco le rimesse dall’Italia alla Cina: dove finiscono i guadagni cinesi?

In base ai dati 2018 diffusi dalla Banca d’Italia sulle rimesse all’estero dall’Italia, la Cina è scomparsa dai primi 20 Paesi che guidano la classifica di tale fenomeno, dopo esserne stata in cima per anni. E questo nonostante aumenti il numero dei residenti cinesi e soprattutto il numero delle loro attività commerciali sul territorio.

E dunque delle due l’una: o hanno smesso di guadagnare e di inviare i soldi in patria, oppure questi soldi hanno preso vie più nascoste, come circuiti delle criptovalute, chat, app telefoniche, carte prepagate. Le statistiche ufficiali non conteggiano del resto il flusso di rimesse che passa attraverso i canali informali, che vanno dalla consegna personale a mano durante i periodici viaggi nel paese d’origine, all’invio tramite amici e familiari, al ricorso ad organizzazioni di trasferimento finanziario non registrate, come il sistema cinese chop o flying money, meglio conosciuto con il nome di hawala. E tale sospetto viene confermato anche dalle indagini della Guardia di Finanza, che, per esempio, tra Prato e Firenze, dove esiste una delle comunità cinesi tra le più grandi d’Europa, con l’operazione “Cian Ba”, ha intercettato un colossale sistema di riciclaggio di proventi derivanti da evasione fiscale, commercio di prodotti contraffatti, illeciti doganali e sfruttamento della manodopera clandestina, con cui erano stati “dirottati” in Cina più di 2 miliardi di Euro.

E questa operazione non è stata nemmeno la prima del genere. Già qualche anno fa c’era stata infatti un’altra operazione della Guardia di Finanza, chiamata, non a caso, “Cian Liu”, ovvero “Fiume di denaro”, il cui meccanismo era sempre lo stesso: un fiume di denaro indirizzato dall’Italia (tramite San Marino) verso la Cina, allora per quasi tre miliardi di Euro. Insomma, non “semplici” reati finanziari, ma una vera e propria struttura criminale pronta a prosciugare il tessuto imprenditoriale nazionale. E alla base di tutto, nel caso in questione, vi era anche un “trucco” fiscale, peraltro incentivato dalle norme della madre patria cinese. Sull’enorme flusso del denaro dall’Italia alla Cina influiva infatti anche il fatto che il governo cinese concede un notevole credito di imposta a chi esporta tessuti. Così le fatture in partenza dalla Cina sono sovrastimate (per incassare più credito di imposta), mentre quelle in arrivo in Italia sono sottostimate (per pagare meno Iva e dazi). Il destinatario, però, deve comunque poi pagare la differenza e lo fa appunto, a nero, attraverso money transfer e canali informali.

Un circuito bancario informale, come appunto l’Hawala, permette, peraltro, di trasferire ingenti somme di denaro da un Paese all’altro senza lasciare tracce. Il migrante che vuole trasferire il denaro consegna il denaro all’hawaladar, cioè all’intermediario che si trova in Italia, che, a sua volta, gli comunica un codice di autenticazione, che questi notificherà (per telefono, e-mail etc) al beneficiario che risiede nel Paese di destinazione dei fondi.

Il beneficiario, con quel codice, si presenterà quindi all’altro hawaladar, cioè l’agente che risiede nel suo stesso Paese, che gli liquiderà il denaro. Successivamente, i due “banchieri” informali opereranno specifiche compensazioni sulla base dei saldi attivi e/o passivi registrati a fronte dei diversi trasferimenti effettuati nel tempo. Tutto molto semplice, veloce e senza neppure trasferimento materiale del denaro. Gli hawaladar, del resto, operano generalmente in attività commerciali (bazar, alimentari, macellerie, phone center, etc.), che nulla hanno a che vedere con le prestazioni parabancarie svolte. Come contrastare efficacemente tutto ciò? Innanzitutto comprendendone i meccanismi di funzionamento e … non credendo alle stime ufficiali.

Fonte: L’Occidentale,03/052019

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