Cambiamenti climatici. La Cina dimostra che l’accordo «storico» di Parigi è una pia illusione.
Pechino ha fatto grandi promesse per ridurre le emissioni di Co2, ma non le mantiene. Nessuno si lamenta: non si può imporre il rispetto degli accordi firmati.
Il caso cinese è perfetto per comprendere il peccato originale dei grandi accordi che vengono stretti tra centinaia di nazioni alle Conferenze mondiali sui cambiamenti climatici dell’Onu. Nessuno li rispetta. E, ancora peggio, nessuno può farci niente.
GRANDI PROMESSE. La Cina, che produce insieme agli Stati Uniti il 45 per cento delle emissioni di Co2 mondiali, ha promesso ai margini della Cop21 (Conferenza sul clima di Parigi) di fermare l’aumento delle emissioni di Co2 entro il 2030 e di raddoppiare fino al 20 per cento il suo utilizzo di energia pulita. Un obiettivo importante, visto che il Dragone emette 10,4 miliardi di tonnellate di Co2 all’anno e la sua economia è basata per quasi il 90 per cento sui combustibili fossili. Questo almeno è quanto dichiarato da Pechino, visto che il New York Times ha scoperto che i dati sono falsificati dal 2000 (la Cina in realtà brucia come minimo un miliardo di tonnellate di Co2 in più all’anno da almeno 15 anni).
NUOVE CENTRALI A CARBONE. Al di là di questi “dettagli”, la promessa è importante e lodevole. Peccato che l’anno scorso, a novembre, Greenpeace abbia rivelato che in barba alle sue promesse il governo cinese ha autorizzato una spesa di 74 miliardi di dollari per costruire 155 nuove inquinantissime centrali a carbone, per un totale di 123 gigawatt, che da sole costituirebbero il 40 per cento delle centrali operative in America. Nonostante lo scetticismo causato dalla notizia, Pechino ha assicurato che a fronte delle nuove centrali costruite, molte saranno dismesse e il risultato verrà raggiunto ugualmente.
PROBABILI CONSEGUENZE. A novembre non restava che credere alla Cina e sperare nella sua volontà di mantenere la parola data. Mercoledì però un nuovo rapporto di Greenpeace, il terzo, scrive ancora il New York Times, ha gettato gli ambientalisti nello sconforto: da qui al 2020, la Cina costruirà una nuova centrale a carbone a settimana, per un totale di 400 gigawatt prodotti a fronte di una spesa di 150 miliardi di dollari. Nonostante la volontà annunciata dal governo cinese di limitare la capacità di alcune centrali e chiuderne altre, molte delle nuove centrali non potranno essere bloccate. Il risultato più probabile quindi è che le emissioni aumentino entro il 2030 e che il 20 per cento dell’energia entro il 2020 non venga prodotta da fonti alternative. Davanti a un’enorme disponibilità di energia inquinante, ma economica, è infatti improbabile che si faccia ricorso a fonti pulite ma costose. Soprattutto perché l’economia cinese rallenta a ritmi preoccupanti pur avendo bisogno di accelerare.
WISHFUL THINKING. Davanti all’allarme lanciato dagli autori del rapporto, Lauri Myllyvirta e Shen Xinyi, qualcuno dei 195 paesi presenti alla Cop21 ha osato lamentarsi o preoccuparsi? No. Ci si limita a sperare che la Cina cambi strada, ma nessuno può imporglielo. L’accordo «storico» che «deve cambiare il pianeta» è dunque ridotto, come direbbero gli americani, a wishful thinking, pia illusione.
Tempi.it,18/07/2016
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