Carlo Sgorlon, scrittore tra Occidente e Oriente

E’ morto ad Udine Carlo Sgorlon all’età di 79 anni. Quando scriveva l’Oriente era il confine orientale adriatico o al massimo il Kuban. Da lì provenivano i cosacchi che i tedeschi si trascinarono dietro nella ritirata dall’URSS, illudendoli col sogno di una seconda patria, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamo Sgorlon con ammirazione per il suo senso poetico, ma anche con stima e rispetto particolari, perché unico fra i letterati italiani -sempre intruppati ideologicamente con qualunque governo in carica- si sentì di scrivere: “Se gli storici tacciono, parlino i poeti”.

Ed egli parlò, al posto degli storici. Ma un poeta che ama la verità e la storia diviene perciò stesso uno scrittore epico. E, rinnegando l’individualismo decadente, Sgorlon divenne un narratore epico e fece suo il compito grandioso e sacro di raccontare la verità sulle vicende friulane del Novecento. Scrisse tra l’altro: ”La conchiglia di Anataj”, Premio Super Campiello 1983, sulla grande migrazione dei friulani per costruire la ferrovia transiberiana. ”L’armata dei fiumi perduti”, Premio Strega 1985, sui cosacchi in Friuli. “La foiba grande”, Premio Pianelle Roson d’Oro

(Pescara) 1992, sui fatti istriani dal 1939 al 1947. “La Malga di Sir”, premiato 4 volte

con riconoscimenti nazionali nel 1997, ispirato all’episodio di Porzus, nel quale partigiani comunisti italiani, agli ordini del IX Corpus jugoslavo, sterminarono partigiani democristiani e liberali italiani.

Sgorlon è stato uno scrittore epico della storia di piccoli gruppi o popoli subalterni ed offesi, onorando però al tempo stesso archetipi, favole, metafore e miti della cultura ancestrale. Perché aveva intuito che questi sono la fonte perenne dalla quale l’umanità trae lo slancio vitale, il sogno e la creazione. I miti, la sacralità del mondo, lo spiritualismo, il sortilegio e l’illusione hanno avuto nel suo cuore dignità pari alla conoscenza razionale. Sit tibi terra levis

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