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Cina, eseguita la condanna a morte del giovane che aveva ucciso per amore

Il ragazzo aveva ammazzato il capo del suo villaggio che aveva fatto distruggere la casa dove doveva sposarsi. Il caso aveva suscitato forti reazioni contro la sentenza alla pena capitale da parte di attivisti, giuristi ed esperti, anche all’interno del regime cinese

Due condannati a morte in Cina

PECHINO – La misericordia è una cosa dell’altro mondo in questo mondo: lo diceva don Giussani, e figuriamoci che cosa avrebbe detto di questa parte di mondo chiamata Cina. La pena di morte qui non fa più notizia da tempo: Pechino, dice Amnesty International, uccide per legge più di tutti gli altri paesi messi insieme. Ma l’esecuzione di Jia Jinglong non aggiunge soltanto un numero alla fila interminabile dei condannati che nel 2013, ultimi dati disponibili, ha raggiunto la cifra record di 2400 persone. Il caso era stato l’ennesimo a sollevare le proteste di giuristi ed esperti, tiepidamente condivisa perfino dai giornali di partito come Global Times, quando il 18 ottobre era arrivato il via libera all’esecuzione, e il ragazzo era diventato l’ennesimo dead man walking.

La storia di Jia era quella tragica di un povero giovanotto di provincia colpevole di un crimine orribile, ci mancherebbe, l’assassinio del capo del suo villaggio nella provincia dell’Hebei, però concepito per vendetta, anzi prima di tutto per amore, dopo che quello gli aveva fatto demolire la casa dove doveva sposarsi. Sembra una storiella invece è il ritratto dell’altra faccia della Cina: quella delle campagne dove però l’avidità per la terra non è mica inferiore a quelle dei signori dei real estate nelle metropoli. Il capo villaggio aveva bisogno del pezzetto dove viveva Jia per costruirci su un appartamento. La famiglia del ragazzo si era piegata al sopruso, visto che inchieste successive hanno provato i maneggi amministrativi del capetto. Jia no, e da allora era praticamente impazzito quando la demolizione era andata avanti. Un ragazzo distrutto: la fidanzata che lo lascia, il lavoro perso, la testa ormai completamente fuori. Fino a prendere una sparachiodi e scaricarla sull’uomo che, pensava, gli aveva distrutto la vita.

Ancora stamattina i giornali di qui riportavano la notizia dell’ultimo appello presentato alla Corte suprema da un gruppo di giuristi: mica contro la pena di morte, ci mancherebbe, ma perché il verdetto di revisione del caso che la Corte stessa aveva dato “viola gli standard del paese sulla pena di morte ed è contro la politica di usarla con cautela”. Espressioni che da qualche altra parte del mondo faranno anche amaramente sorridere, ma qui riflettono parole pesanti come pietre, scagliate da gente come Jian Ping, uno dei più grandi luminari di diritto, professore alla China University of Political Science. La politica della “cautela”, del resto, è stata davvero fortemente caldeggiata dal regime negli ultimi anni, preoccupato di mettere un freno all’uso troppo facile: tanto più in questo caso, dove la storia del povero ragazzo vittima dei soprusi del capo villaggio sembrava esemplificare quella corruzione degli apparati denunciata dal presidente Xi Jinping.

Il caso aveva infiammato anche i social media, appassionatisi alla vicenda del ragazzo che aveva ucciso “per amore”, e naturalmente aveva scatenato gli attivisti di mezzo mondo, cavalcato soprattutto dai media anglosassoni. Ma le poche righe della notizia dell’esecuzione, battuta in cinese alle 10 del mattino dall’agenzia Xinhua, hanno spento ogni speranza: “La corte d’Appello di Shijazhuang ha eseguito la pena di morte per l’omicida Jia Jinglong. Prima dell’esecuzione, la Corte gli ha permesso di incontrarsi con i suoi famigliari, secondo quanto previsto della legge”. Secondo quanto previsto dalla legge: la misericordia è una cosa dell’altro mondo in questo mondo.

La Repubblica,15/11/2016

English article,The Guardian: