In Cina il potere sempre più incentrato sul presidente Xi Jinping
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E’ evidente che Xi Jinping abbia dato un’ulteriore caratterizzazione in senso leaderistico alla Cina. Ma, come sempre, alla base di ogni svolta autoritaria c’è anche una debolezza. Una Cina che, dopo un boom durato un ventennio, si trova a dover gestire una “nuova normalità” - l’ha definita così lo stesso presidente - e a dover contenere una popolazione la quale vede aumentare le disparità, si pone il dubbio di come mantenere una stabilità nella configurazione del potere e Xi sta fornendo una risposta.
Arrivato alla presidenza nel 2012, il presidente 63enne si avvicina alla scadenza del suo primo mandato, che è stato caratterizzato da una forte caratterizzazione etno-nazionalista, con il recupero di aspetti della civiltà cinese tradizionale, a partire dall’eredità confuciana, e da un tentativo di rinverdire il prestigio del Partito comunista, anche attraverso una dura campagna anti-corruzione, utile per di più a eliminare gli elementi che il presidente poteva vedere come un ostacolo.
Un’operazione di svecchiamento della comunicazione - con i “rap” dedicati al nuovo Piano quinquennale, gli spot in stile hollywoodiano per segnalare una vicinanza del Partito alla gente comune - è stata accompagnata da nuova stretta sulla rete di comunicazione. I media “devono amare il partito, proteggere il partito e allinearsi in maniera stretta alla leadership del partito nel suo pensiero, nelle politiche e nell’azione”, ha affermato Xi a inizio anno, andando a parlare nelle redazioni delle testate pubbliche: la tv CCTV, l’agenzia di stampa Xinhua, il Quotidiano del Popolo.
Xi sta tirando le redini del cavallo, che non è più in una fuga folle, per mantenerne il controllo. Una crescita prevista del Pil del 6,5 per cento per la seconda economia del mondo, pur essendo certamente un risultato rimarchevole, è ben lontano dagli incrementi a due cifre del passato e alle aspettative di una popolazione che, in uno scambio non esplicito, chiede più benessere, più consumi per non pretendere più democrazia. In questo senso, la leadership ha bisogno di un maggiore controllo sull’economia stessa, mettendo di fatto le briglie anche a quel settore importantissimo delle aziende di stato, dove alligna più che altrove il germe dell’interesse privato e della corruzione. Non a caso su queste s’è concentrata particolarmente l’azione dell’onnipotente Commissione di controllo di disciplina del partito, il braccio operativo della campagna anticorruzione, guidata dall’altrettanto onnipotente Wang Qishan, vero numero due di Pechino più del premier Li Keqiang che molti danno in via di smobilitazione.
C’è poi il tema del ruolo regionale e globale della Cina. Diventata la seconda economia del mondo, Pechino è sempre più impegnata a imporre il suo peso in Asia orientale. Da un lato cerca di mantenere libere le vie di approvvigionamento di cui ha un grande bisogno: in questo senso va la sua rivendicazione dell’80 per cento della sovranità sul vitale Mar cinese meridinale, che la mette in rotta di collisione con gli Stati uniti e con diversi altri paesi della regione. Attraverso quello specchio d’acqua passa il 40 per cento degli scambi mondiali.
Dall’altro lato, Pechino sta cercando di riaprire la cosiddetta “Via della Seta” per creare un canale di trasporti multipiattaforma eurasiatico attraverso il programma “Belt and Road”, fortemente sospinto da Xi. Si tratta di un’idea ambiziosa, che non ha solo una valenza economico-commerciale, perché rende la Cina protagonista geopolitica dell’Eurasia, trasformandola nell’interlocutore privilegiato per i paesi dell’Asia centrale e dell’Europa orientale. Questo mentre gli Stati uniti si sono fatti promotori di un accordi di libero scambio, il Partenariato trans-Pacifico (Tpp), al quale Pechino non partecipa.
Questa visione, tuttavia, deve essere sostenuta da una capacità militare importante. Pechino possiede il terzo arsenale nucleare del mondo e sta investendo in maniera massiccia sulla difesa. Si tratta però di operazioni delicate, perché le forze armate rischiano sempre di configurarsi come un contropotere. Anche in questo senso Xi Jinping ha lavorato in maniera decisa nel senso di una centralizzazione: la riforma militare realizzata quest’anno, di fatto, trasforma il presidente cinese in un “Commander-in-Chief” dell’Esercito di liberazione popolare, in un significativo parallelismo con il ruolo che ha il presidente negli Stati uniti.
Tutta questa attività per rendere più solido il potere centrale, nelle mani del presidente, è tuttavia solo una parte dell’opera. Xi Jinping, secondo molti osservatori, non sempre affatto intenzionato a lasciare il lavoro a metà. In questo senso, già da tempo si susseguono analisi e voci che vorrebbero il presidente intenzionato a prolungare la sua permanenza al potere o, quanto meno, a ritardare la nomina di un successore. Sulla prima ipotesi s’incentra un articolo pubblicato oggi dal Financial Times, secondo il quale la prossima mossa del presidente potrebbe essere quella di mettere in discussione i limiti d’età informali (67 anni) che i vertici cinesi si sono dati per sfuggire al rischio di diventare una gerontocrazia. Facendolo alla fine del primo dei suoi due mandati quinquennali, cioè il prossimo anno, per i molti membri del Politburo - il “sancta sanctorum” del Pcc - che arriverebbero all’età di pensionamento, il presidente metterebbe in discussione un principio che, nel 2022 (quando lui avrà 69 anni), impedirebbe a lui stesso di restare al potere.
Altri osservatori, invece, segnalano che Xi potrebbe limitarsi a non fare l’attesa nomina del suo successore nel 2017, cioè alla fine del primo mandato, come prassi dagli anni ’90. Xi Jinping ha quest’esperienza: fu nominato dal suo predecessore, Hu Jintao, all’inizio del secondo mandato di quest’ultimo. Sa quindi che la compresenza del leader in carica e di quello futuro indebolisce il primo. “Nominare - ha spiegato ieri William Pesek di Barron’s Asia - un successore così in anticipo può rendere il leader del Partito comunista qualcosa come un’anatra zoppa”.
Fonte: askanews, 15 ott 16
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