Detenuti italiani all’estero: i “prigionieri del silenzio”

Il recente caso del diplomatico italiano nelle Filippine, Daniele Bosio, liberato dopo false accuse di abuso di minori derivate da assurde pretese inquisitorie di una operatrice di Ong locali oltre un anno fa, riporta alla luce il caso dei reietti italiani all’estero. I detenuti di cui ci vergogniamo e che la Farnesina abbandona a se stessi. Peraltro come di fatto è successo anche con i marò.

Li chiamano i “prigionieri del silenzio”. Sono i 3309 italiani detenuti all’estero. Ma dovrebbero chiamarli i “figli della colpa”. Nessuno si occupa di loro. Spesso le ambasciate e la Farnesina li scaricano fin dal giorno dell’ingresso in carcere, le famiglie sono troppo distanti e gli avvocati difensori in loco sono spesso scelti dal Mae sulla base di vecchie convenzioni che risalgono in certi Paesi anche a trent’anni fa. Quasi tutti tra i praticoni del posto. Per non dire peggio. Perché nei Paesi del Terzo Mondo, Cuba, Medio Oriente, Sud America, Asia, non è raro per qualcuno di questi malcapitati sentirsi dire sin dal primo colloquio in carcere dal legale di fiducia che “bisogna ungere il giudice” con conseguenti richieste di soldi.

I numeri sono pubblicati in tre tabelle contenute nell’annuario della Farnesina nelle pagine da 163 a 165. Solo 671 italiani stanno scontando una pena definitiva mentre oltre 2602 sono in attesa di giudizio. A volte per anni. Poi ci sono quelli che aspettano l’estradizione, circa 36. I reati che la fanno da padroni nelle statistiche sono quelli per droga, più del 75 per cento di tutti gli altri. Non pochi sono quelli che credono di andare a farsi qualche canna a basso prezzo in Paesi visti come faro della civiltà, specie a sinistra, vedi Cuba, ma che poi finiscono come Giulio Brusadelli, che si è fatto quasi un anno in carcere a L’Avana, il 2014, per pochi grammi di marijuana. O, come Lorenzo Bassano, colpevole di un’incoscienza che almeno il 50 per cento degli italiani compie in viaggio all’estero: dimenticarsi la droga nella giacca in albergo.

Per la statistica, il Paese dove gli italiani sono di casa in galera in Europa, area Ue, è la Germania con 1229 casi. Segue la Spagna con 444 casi. Quasi tutti trafficanti di hashish e cocaina di medio o alto livello. In Francia i detenuti italiani sono 317 e in Belgio 243. Nel resto d’Europa, area Ue, i detenuti sono 347. Fuori dalla Ue ci sono circa 161 detenuti, 118 in Svizzera e 13 in Albania ma anche in Ucraina (uno) e a San Marino (due). Montenegro (uno), Macedonia (quattro), Norvegia (uno), Bosnia (due), Principato di Monaco (sei), Russia (uno), Moldavia (quattro), Turchia (tre) sono gli altri nomi che la statistica consegna al Mae. Poi ce ne sono 425 nelle due Americhe, la maggior parte negli States, sessantotto, o in Brasile (75). Altri 50 si trovano in Argentina. Poi 36 in Colombia, 9 in Messico, 20 in Ecuador, 9 in Bolivia, 56 in Perù e 36 in Venezuela. Tutti protagonisti di traffico medio-grande di cocaina.

In Africa e Medio Oriente ci sono quelli che si trovano nelle condizioni più drammatiche: 21 in Marocco, 4 in Senegal, 7 in Tunisia, 7 negli Emirati arabi uniti. Poi Asia e Oceania: 25 in Australia, 15 in Cina e 12 in Thailandia, tanto per cominciare, senza dimenticare i sei detenuti in India, tra cui i nostri eroici e incolpevoli marò, capri espiatori di una contesa internazionale che si trascina ormai da oltre quattro anni. Da segnalare anche i singoli casi, tutti per droga, degli unici detenuti italiani in Pakistan e Malesia e dei due in Indonesia. In quei Paesi ci sta anche la pena di morte per traffico di droga e a volte il semplice possesso porta a pene che vanno dai vent’anni fino all’ergastolo.

In teoria ciascuno dei 3309 italiani che per un motivo o l’altro è stato incastrato dalla giustizia internazionale dovrebbe essere un caso diplomatico, ma l’Italia per consuetudine se ne disinteressa lasciandoli al proprio destino. D’altronde, se non siamo riusciti a risolvere la questione dei fucilieri di marina figuriamoci che assistenza possono avere tutti gli altri.

L’Opinione,07/12/2015

Condividi:

Stampa questo articolo Stampa questo articolo
Condizioni di utilizzo - Terms of use
Potete liberamente stampare e far circolare tutti gli articoli pubblicati su LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, ma per favore citate la fonte.
Feel free to copy and share all article on LAOGAI RESEARCH FOUNDATION, but please quote the source.
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Internazionale.