Domodossola: Il regime totalitario cinese e la questione tibetana

Il silenzio del sangue innocente è giunto a noi sabato 26 maggio attraverso i relatori che hanno parlato a Domodossola durante la Tavola Rotonda “Il regime totalitario cinese e la questione tibetana. Testimonianze”. Ha moderato l’incontro il prof. Vincenzo Rizzo, docente di filosofia ed esperto in questioni di diritti umani. Il tibetano Chodup Tsering Lama, della Tibet Culture House, ha relazionato sul genocidio culturale in Tibet. Perseguitato dal governo cinese, è stato costretto a fuggire con la famiglia dal Tibet non per questioni religiose, ma per salvare la vita. Racconta che delle 500 persone che erano in fuga soltanto la metà è riuscita a raggiungere il Nepal, gli altri 250 sono stati uccisi dalle pallottole dell’esercito cinese. Suo padre ha cercato ripetutamente di rientrare in patria ma senza riuscirci. Chodup parla di monaci e suore tibetane continuamente picchiati, incarcerati e uccisi. È una storia fatta di orrori e di massacri, una storia che parte da lontano ma che ha avuto una recrudescenza negli ultimi anni. Gli oppositori religiosi, politici o dell’informazione sono considerati “reazionari”, “assassini” o appartenenti alla cricca del Dalai Lama. Chodup, poi, si sofferma sul genocidio della cultura tibetana: opere d’arti distrutte, vietato frequentare le scuole dei monaci, proibito studiare il tibetano, monasteri distrutti per minare la cultura di quel popolo sottraendo così punti di riferimento alla fede buddista dei tibetani. Dopo Chodup ha parlato una cinese, Lan Ning. Esordisce dicendo che, pur essendo cinese, lei ha in comune coi tibetani lo stesso persecutore, il Partito Comunista Cinese. Ning ha aperto un’altra pagina di orrori parlando della persecuzione del movimento spirituale Falun Dafa in Cina. Il Falun Dafa è un movimento di ispirazione Taoista-Buddista ritenuto dal governo cinese un culto malvagio capace di diffondere superstizioni atte a ingannare la gente, un culto che inesorabilmente porta alla pazzia e al suicidio. La verità dei fatti è ben altra. Ci troviamo difronte a un movimento religioso che, attraverso l’esecuzione di esercizi, cerca di purificare il corpo e la mente aiutando le persone a diventare migliori soprattutto attraverso la pratica quotidiana dei principi di Verità, Benevolenza e Tolleranza. Per l’identificazione dei praticanti della Falun Dafa, il governo cinese ha istituito un ufficio apposito simile alla Gestapo nazista, l’ufficio 6-10 che può operare senza vincoli costituzionali. Sono stati aperti due campi di concentramento solo per detenere i praticanti della Falun Dafa. Infine, Lan Ning ha accennato alla pratica dell’espianto forzato di organi, non solo dai condannati a morte, organi destinati al mercato interno e internazionale. Questo traffico di morte procura alti profitti per gli ospedali, per la polizia e l’élite del Partito Comunista. Il terzo relatore, il prof. Paolo Ferrante, autore di un libro sui Laogai, ha parlato dei campi di concentramento attivi in Cina. Sono stati individuati 1422 campi di concentramento (Laogai) con una popolazione di reclusi di almeno 3 milioni. Persone sottoposte a lavoro forzato (la parola “laogai” significa: riforma attraverso il lavoro), lavaggio del cervello e tortura sistematica. Il relatore ha sottolineato come il lavoro forzato (15-18 ore al giorno) sia un indubbio vantaggio economico per il regime comunista cinese e le numerose multinazionali che investono e producono in Cina. Nonostante prove prodotte su questi crimini, sull’espianto forzato di organi, sulla strage prodotta dalla politica del figlio unico, sulle condanne a morte programmate e finalizzate all’espianto degli organi, i mass media ne parlano poco, non esiste la reale volontà politica internazionale di fermare gli orrori e, in più, le autorità politiche ed economiche occidentali continuano a collaborare con Pechino alimentando così il consenso e l’ammirazione per una dittatura che commette crimini mostruosi. L’ultimo relatore, il dott. Claudio Tecchio, sostenitore della Campagna di Solidarietà con il Popolo Tibetano, ha parlato di “Democrazia per la Cina. Indipendenza per il Tibet”. La libera circolazione delle notizie è un sogno utopico per Pechino. Non conta la realtà dei fatti, conta l’interesse del Partito e il sistema produttivo. Il lavoratore cinese è senza diritti e, quindi, senza difesa: paghe ridicole, ferie praticamente inesistenti, salari pagati in ritardo, ore straordinarie obbligatorie e forfetizzate, pene corporali e facili licenziamenti. Tutto ciò facilita la vendita dei prodotti cinesi a prezzi fortemente concorrenziali. Si calcola che almeno l’80% della popolazione cinese è sfruttata nelle fabbriche-lager. L’Italia è il paese più danneggiato dall’invasione di questi prodotti in tutti i settori. Si stima che la presenza dei prodotti cinesi in Italia è uno dei fattori principali della crisi economica italiana. Tecchio afferma che in un mondo in cui non è più necessario occupare fisicamente un territorio per imporre il proprio dominio, la Cina cerca, grazie anche alla sua ricca e potente diaspora, di diventare il motore dello sviluppo di tutti i paesi per renderli dipendenti dalle sue politiche economiche. I dirigenti di Pechino, dosando sapientemente seduzione commerciale e minaccia militare, sono in grado di condizionare pesantemente le decisioni dei singoli Governi e degli Organismi Internazionali. In Cina nessuno può illudersi, come invece s’illusero gli eroici studenti che assediarono la Città Proibita, che una dittatura possa auto riformarsi e tollerare una qualche forma di transizione verso la democrazia. In Tibet nessuno s’illuda che i teorici del “centralismo democratico” possano mai tollerare anche solo un simulacro di autonomia amministrativa. In Tibet il controllo sociale è totalmente esteso, la già flebile opposizione politica è stata annichilita, i lavoratori intimiditi dai licenziamenti di massa, i contadini deportati. La lotta di liberazione sarà di lunga durata in quanto gli autocrati di Pechino hanno fatto tesoro dell’esperienza sovietica e non ripeteranno certo gli “errori” commessi dal PCUS. Alimentare la cultura della rassegnazione porterà solo a futuri, ancor più sanguinosi, conflitti la cui responsabilità ricadrà su tutti noi.
L’incontro si chiude con la proiezione di una slide: “Non dimenticateli. Parlatene!”

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Paolo Ferrante

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