Google si arrende alla Cina: Pechino controlla le ricerche

La Cina è vicina e lontana. Vicina perché influenza le decisioni dei grandi social network da cui l’Occidente non si scollega nemmeno per un minuto-secondo; lontana perché impone le sue regole, meglio le sue censure, ai vari Twitter, Facebook, Google e compagnia comunicante. Ultimo a chinare la testa davanti ai gran mogol, verniciati di capitalismo ma non di liberismo, è il motore di ricerca più famoso e consultato del mondo. Google ha infatti rimosso dal suo motore di ricerca in Cina la funzione che avvertiva che la parola che si stava cercando poteva essere «sensibile» per il governo di Pechino. Fino a ieri a quel punto la ricerca si bloccava. Una censura a fin di bene, per impedire che, andando avanti, l’internauta si mettesse a rischio di denunce e punizioni. Pochi giorni fa (guarda caso proprio quando è stata rimossa, nel silenzio generale, l’applicazione con l’avviso) si sono cominciate a diffondere notizie di un possibile accordo fra Google e Qihoo 360 Technology, società informatica cinese che gestisce l’omonimo motore di ricerca, ma soprattutto il più usato browser cinese.

Le proteste
La decisione della società di Mountain View di interrompere il servizio sarebbe arrivata alla fine di un braccio di ferro con le autorità dell’ex celeste impero, cominciato lo scorso giugno. Una capitolazione che non è certo piaciuta agli utenti: sul web cinese sono molti i messaggi contro Google, che ha perso «la reputazione come avversatore della censura», accettando una autocensura. La guerra tra Google e la Grande muraglia di fuoco (gioco di parole tra i limiti imposti a internet, in inglese firewall, e la Grande muraglia cinese), il sistema cinese di censura su internet, non è recente e spinse il gigante informatico a spostare i suoi server a Hong Kong nel 2010. Nonostante questo, spesso sia Google che i servizi di posta elettronica gmail risultano bloccati in Cina. Dove non esiste Facebook e anche Twitter ha non pochi problemi.

Le polemiche su Google non si fermano qui. Fa discutere infatti anche la missione «umanitaria» in Corea del Nord di una delegazione Usa, composta tra gli altri dal presidente di Google Eric Schmidt. La visita, contestata dall’amministrazione Obama per la tempistica, cade dopo il lancio del missile effettuato a dicembre dalla Corea del Nord per mandare in orbita un satellite di osservazione, ritenuto invece dall’Occidente il test di un vettore nucleare a lunga gittata, capace di raggiungere gli Usa.

Governi contro
Tutto il mondo è comunque paese. Sono infatti oltre mille le richieste ufficiali, inoltrate negli ultimi sei mesi da parte di organismi governativi, per rimuovere contenuti Web ritenuti scomodi. È l’estrema sintesi del Global Transparency Report, studio che Google rende pubblico ogni semestre nell’ottica di alzare il velo sulle azioni «coercitive» imposte dai singoli Stati per ciò che concerne la pubblicazione di documenti online, a cominciare dai video su YouTube. Nel report figurano istanze di democrazie «non tipicamente associate con la censura», come Polonia, Spagna e Canada. Tutte richieste non accolte. Alle autorità thailandesi va invece il primato in termini di numero di richieste soddisfatte. Oltre cento. Google infine ha obbedito al 42% degli «ordini» emessi per conto del governo degli Stati Uniti, che hanno portato alla rimozione di 187 contenuti, di cui la maggior parte relativi a molestie. Quanto contino le convenienze commerciali nell’accettare o meno la censura è dunque tutto da stabilire, caso per caso.

Alberto Guarnieri

Fonte: Il Messaggero, 9 gennaio 2013

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