Da Hong Kong allo Xinjiang, le spine nel fianco della Cina

Proprio nei giorni in cui ad Hong Kong gli studenti stanno occupando le piazze per protestare la mancata promessa di poter eleggere direttamente i propri governatori senza che Pechino intervenga, al cinema Apollo durante il festival di Internazionale si discute della spina nel fianco di Pechino: lo Xinjiang.

A parlare della parte di Cina che come il Tibet è oggetto di oppressione da parte della Cina sono oggi intervenuti l’attivista e avvocato di origine uigura Nury Turkel, James Millward della Georgetown University, Nicholas Bequelin di Human rights watch in diretta da Hong Kong e Junko Terao di Internazionale.
“Lo Xinjiang, situato a nord ovest dello stato – spiega lo storico James Millward -, ha una lunga tradizione di legami con la Cina; per questo la Cina insiste che questo luogo sia di suo dominio dalla notte dei tempi”. Ciò, secondo lo storico, risale al settecento durante lo stato imperiale cinese, ed è stato conservato anche quando lo stato cinese si è trasformato in nazione moderna. “Sotto il dominio cinese, però, gli uiguri – continua – hanno fatto emergere il loro potere nazionale: sono musulmani con storia, politiche e costui propri”.

È però tra la fine del XIX e la metà del XX secolo che inizia la difficoltà di Pechino di mantenere il potere. “La situazione si complica con la persecuzione maoista, che rifacendosi al modello sovietico delle repubbliche considera lo Xinjiang come un feudo. Da qui le moschee vengono distrutte e iniziano i problemi”, conclude Millward.

Per Nicholas Bequelin la situazione a Hong Kong, come quella nella zona di Xinjiang, è un campanello d’allarme sul potere sempre più crescente ed autoritario di Pechino, non solo dal punto di vista finanziario ed economico. Per Bequelin “è difficile capire come evolveranno le cose nelle prossime ore a Hong Kong. Speriamo non si arrivi alla condizione del 1989 con piazza Tienanmen”.

Per quanto concerne invece la situazione degli uiguri dello Xinjiang, “i motivi delle violenze di Pechino verso la mia regione di origine – spiega Nury Turkel: sono dati dal fatto che lo Xinjiang non rientra nei piani strategici del Paese. Per questo negli ultimi anni c’è stata una sorta di inondazione di cinesi han e gli uiguri non possono più partecipare ad alcuna attività di tipo religioso ed è stato introdotto il bilinguismo che ha modificato tutto il sistema scolastico.

Lo uiguro è considerato fuori sincronizzazione rispetto alla modernità della Cina, e ciò è considerato un segno di arretratezza. Inoltre vi è una discriminazione di tipo razziale, poiché veniamo considerati una sorta di esotici, di stranieri. Le questioni che compromettono la libertà degli uiguri sono quindi di tipo religioso, culturale, razziale ed economico”. L’attivista uiguro spiega infatti come la maggior parte dei suoi concittadini viva al di sotto della soglia di povertà e di come gli studenti siano continuamente discriminati quando si candidano per certe occupazioni di prestigio.

La conversazione si sposta in poi sulla condizione religiosa e sulle implicazioni che questo fattore ha comportato dopo l’11 settembre 2001. Per Turkel questa data ha segnato un radicale inasprimento della situazione poiché “negli anni ’80 si era liberi di praticare la propria religione, ma dopo l’11 settembre il governo cinese ha cominciato a compiere alcune campagne specifiche usando il termine ‘terrorismo’ collegato alle azioni degli uiguri” e per lo storico Millward “Bush e il concetto di guerra globale al terrorismo ha fornito un nuovo paradigma per Pechino: considerare lo Xinjiang non più un feudo, bensì una base terrorista, inasprendo ancora di più la situazione”. Anche per Nicholas Baquelin “questa politica non farà altro che radicalizzare la situazione, portando episodi di violenza sempre maggiore”.

Infine, il dibattito si sposta verso una possibile analogia con il caso del Tibet. “Lo Xinjiang è un altro Tibet. Se si parte da questo punto di vista si capisce anche la sua posizione di colonia per Pechino. La loro terra è stata completamente invasa e trasformata. Sono entrambe due regioni sulla carta autonome, dove pechino Pechino sta applicando le stesse modalità, solo che il Tibet gode di un maggiore responso mondiale e mediatico”, conclude Baquelin. A questo risponde con prontezza Nury Turkel: “perché il Tibet è buddista, mentre la mia regione è musulmana, e noi non abbiamo nessuno col carisma del Dalai Lama.

di Anja Rossi,Estense.com,04/10/2014

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