La funebre Cina italiana

La periferia di Prat è caratterizzata da strade gremite di decine di piccole officine conosciute come capannoni. La città è conosciuta per essere stata leader mondiale nella produzione di tessuti di lana di alta qualità e per aver esportato 7 miliardi di dollari di tessile nel 2000. Questo, fino all’arrivo della concorrenza di paesi con mano d’opera a basso costo – Europa dell’Est, Africa, Bangladesh e, naturalmente, la Cina.

Da allora, più della metà delle fabbriche ha chiuso, e il resto delle aziende tessili ha trasferito le operazioni per poter sopravvivere. Nel frattempo, invece di rimanere abbandonati, gli edifici sono stati occupati da un nuovo business: fabbriche tessili cinesi che in molti casi operano come se le leggi sul lavoro e sulla sicurezza fossero un’idea astratta proveniente da un paese straniero. Una pratica che le autorità locali hanno provato a correggere, ma con scarsi risultati.

Martedì 10 novembre 2015 papa Francesco ha visitato Prato, che è oggi conosciuta come la “piccola Cina italiana”. Nel suo discorso, il pontefice ha denunciato le condizioni disumane dei lavoratori della città e ha affermato che è necessario lottare contro “il cancro della corruzione, dello sfruttamento del lavoro e il veleno dell’illegalità”.

Sfruttamento della mano d’opera

Qualche anno fa, durante uno dei molti blitz delle forze dell’ordine in una delle centinaia di aziende cinesi di Prato, i poliziotti trovarono uno spazio grande quanto una palestra, strapieno di file di macchine da cucire e montagne di ritagli di tessuti, con le finestre oscurate da teloni di plastica scura per impedire l’entrata di qualsiasi raggio solare. Pannelli di compensato erano usati per ricavare minuscole stanze improvvisate, ricoprire le pareti e creare un bagno sporco e una cucina in un angolo dell’edificio.

Circa 20 persone, la maggior parte poco più che ventenni, emersero dai cubicoli strofinandosi gli occhi. Più che spaventati sembravano rassegnati. Mentre la polizia controllava i documenti – tre di loro erano irregolari – i lavoratori cominciarono controvoglia a riempire dei sacchi della spazzatura con ogni tipo di oggetto, dai vestiti ai computer, dalle pentole ai cibi surgelati. I poliziotti bloccarono le porte delle stanze e misero i sigilli alle macchine da cucire. Senza tirarla per le lunghe, la porta della fabbrica venne chiusa con i lucchetti e i lavoratori salirono su delle macchine che erano apparse all’improvviso per portarli in un’altra officina.

Questa fu una delle oltre duemila operazioni che le autorità hanno realizzato dal 2008. Le fabbriche ispezionate sono state chiuse, per esempio, per aver violato le leggi sulla sicurezza e sul lavoro, ma è risaputo che le piccole aziende semplicemente si trasferiscono in altri palazzi e riaprono con un altro nome. L’ultima volta che la questione è finita sulle prime pagine dei giornali è stato alla fine del 2013, quando un incendio scoppiò in un capannone all’alba, provocando la morte di sette lavoratori che dormivano nelle loro stanze fatte di legno compensato.

Chiudere un occhio

L’incendio portò le autorità a intensificare le ispezioni nelle fabbriche e all’accusa di omicidio per cinque persone, tra cui i due proprietari italiani dell’edificio. Una scomoda verità è che la maggior parte dei capannoni è ancora in mano agli italiani, i quali si accontentano dell’affitto e chiudono gli occhi davanti a quello che succede nelle loro proprietà.

Tempo dopo, i ministri della Giustizia cinesi e italiani firmarono un memorandum di cooperazione nella lotta contro il crimine organizzato transnazionale. Nonostante la misura, il procuratore antimafia Franco Roberti affermò che la comunità cinese di Prato sarebbe stata molto “chiusa e difficile da penetrare” e che, fino ad allora, la cooperazione con le autorità cinesi era stata inesistente.

È superfluo dire che la grande presenza di lavoratori cinesi a Prato ha aumentato le tensioni culturali e l’illegalità in città. Nonostante sia difficile conoscere la quantità esatta di cinesi che ci vivono, le autorità stimano che, tra regolari e irregolari, il numero si aggiri sul 20% della popolazione di 191 mila abitanti, ovvero la più grande concentrazione di cinesi in Italia e una delle più alte d’Europa.

Le situazioni di tensione sono sorte innanzitutto dal rumore proveniente dai ristoranti cinesi, che di solito rimangono aperti fino a tarda notte, e dal risentimento degli italiani verso gli imprenditori asiatici che non si vergognano di ostentare la loro nuova ricchezza girando su macchine di lusso.

Una voce cinese a Prato

Marco Wong, impresario cinese nel settore dell’import-export nato e cresciuto in Italia, afferma che quando scoppia un conflitto di solito è il lato cinese ad avere la peggio. Cita il caso di una recente rissa all’esterno di un ristorante cinese tra un gruppo di uomini cinesi e italiani.

“Le autorità hanno preso per buona la versione raccontata dagli italiani e poco dopo hanno ispezionato il ristorante. Molti cinesi di Prato l’hanno interpretato come un segnale di persecuzione”. Wong fa quello che può per dare una voce politica ai suo concittadini nella città italiana. Ha corso – e perso – per due volte per il consiglio comunale di Prato per SEL. La prima volta, sei anni fa, ha ottenuto 24 voti; alle ultime elezioni nel 2014, 241.

L’imprenditore dice che l’aumento nel numero di voti a suo favore ha fugato una denuncia comune contro i lavoratori cinesi, ovvero il fatto che si approfitterebbero dei servizi del welfare italiano, non pagando le tasse, per poi in seguito ritornare in Cina dopo anni passati a lavorare a Prato. ” Oggi ci sono molti più cittadini italiani di origine cinese. Pechino non riconosce la doppia cittadinanza e ciò significa che queste persone si sono impegnate a rimanere in Italia”.

Più appoggio, più integrazione

Prato ha fatto anche alcuni progressi per migliorare l’integrazione, per lo meno di alcune imprese cinesi. Di recente, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera e delle Piccole e Medie Imprese di Prato ha annunciato che offrirà più appoggio alle aziende cinesi registrate legalmente in tutti i campi: dalle informazioni sulla salute e sulla sicurezza alla formazione professionale.

Ma contenere l’ondata di lavoratori cinesi che entrano illegalmente in Italia da altri paesi o dalla Cina continuerà ad essere un compito arduo, così come i miliardi di euro non dichiarati al fisco che vengono inviati illegalmente nel paese asiatico. In parte, questa è una delle ragioni per la quale i lavoratori non si sentono sfruttati: svolgono la stessa lunga giornata lavorativa che farebbero nel loro paese, ma guadagnano 2-3 euro all’ora, almeno il doppio che in Cina.

Questo è il caso, per esempio, di Wei Dingwen, operaio tessile cinese di 28 anni. A Prato dice di lavorare sette giorni su sette per 18 ore al giorno, e di guadagnare 40 euro al giorno. Gli stipendi del primo anno sono stati destinati esclusivamente a pagare i trafficanti di essere umani che l’hanno portato in Italia. Nonostante ciò, dice che gli piace lavorare qui, “perché lavoro vuol dire soldi”.

Team giornalisitico Valle Susa, 28/12/2015

[Articolo originale “A triste realidade da pequena China italiana” di Megan Williams]

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