I tanti paradossi della Cina
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A un osservatore disattento l’esito delle elezioni politiche a Taiwan, la grande isola di fronte alle coste della Cina che molti chiamano ancora “Formosa”, potrebbe sembrare del tutto irrilevante. Stiamo parlando, in fondo, di un Paese che, per quanto economicamente avanzato, conta soltanto 23 milioni di anime.
Perché la RPC, con il suo miliardo e 300 milioni di abitanti, dovrebbe preoccuparsi di quanto accade a Taipei? La leadership di Pechino è impegnata in battaglie di ben altra portata, non ultima quella della supremazia – che cerca di imporre con la forza militare – nel Mar Cinese Meridionale.
Eppure, a ben guardare, i segni di nervosismo nella capitale della Cina stanno crescendo. Il caso di Hong Kong è tutt’altro che risolto. Là il fuoco cova sotto le ceneri, e larga parte della popolazione della ex colonia britannica pare intenzionata a proseguire la lotta per impedire il totale assorbimento da parte della “madre patria”. Quelle di Taiwan e Hong Kong sembrerebbero, in effetti, delle classiche punture di spillo, non certo in grado di turbare le strategie a lungo termine della seconda superpotenza mondiale (nonché Paese più popoloso del pianeta).
Eppure non è così. La leader del Partito Democratico Progressista anti-cinese, la sessantenne Tsai Ing-wen, ha ottenuto a Taiwan una vittoria davvero schiacciante, 60% dei voti rispetto al 30% del suo avversario Ma Ying-jeou. L’uomo, per intenderci, che il 7 novembre dell’anno passato aveva incontrato a Singapore il Presidente cinese Xi Jinping stringendogli calorosamente la mano.
Senza dubbio quella stretta di mano gli è costata la disastrosa batosta elettorale, dimostrando che la stragrande maggioranza dei taiwanesi vuole mantenere le distanze dalla RPC. C’è, tuttavia, un paradosso che merita di essere sottolineato.
Il candidato battuto è il leader del Kuomintang, vale a dire il partito del defunto Generalissimo Chiang Kai-shek. Proprio colui che, perduta la guerra civile con i comunisti di Mao Zedong, si rifugiò nel 1949 sull’isola, facendone un bastione anti-comunista protetto dagli americani, e senza mai rinunciare al sogno di riconquistare un giorno tutta la Cina continentale. E pure mantenendo, per qualche tempo, il seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu a nome dell’intera Cina.
Sappiamo che la storia è andata diversamente. Taiwan è diventata una delle “tigri asiatiche” grazie a un rapido sviluppo economico e tecnologico, ma restando comunque una nazione piuttosto isolata sul piano politico e diplomatico. La sua indipendenza è sempre stata garantita dall’alleanza di ferro con gli Stati Uniti, pronti a intervenire in modo diretto qualora Pechino avesse deciso di abbinare alla propaganda azioni di forza concrete.
Il paradosso che ho prima menzionato si spiega con una certa facilità. Dopo la morte di Mao e la svolta economica di Deng Xiaoping, anche la RPC ha conosciuto una sviluppo impetuoso che l’ha condotta, per l’appunto, al secondo posto nella classifica economica, commerciale e finanziaria mondiale. Prima sottotraccia e poi in modo aperto, sono cresciuti in maniera esponenziale anche gli scambi con Taiwan che ora dipende in larga misura – come tanti altri Paesi – dai rapporti economici con Pechino. Di qui l’intenzione degli ex arcinemici del Kuomintang di “normalizzare” la situazione riavvicinandosi alla Repubblica Popolare.
Come nel caso di Hong Kong, tuttavia, anche a Taiwan la popolazione approva gli scambi economici e commerciali, ma non vuole saperne di un qualsiasi tipo di comunanza politica. Il capitalismo di Stato o, se si preferisce, il finto comunismo cinese non convince affatto. A Taipei e Hong Kong preferiscono mantenere elezioni libere e il multipartitismo.
Nel frattempo Pechino continua, ignorando gli ammonimenti USA, a costruire basi sugli atolli contesi, causando allarme crescente nelle Filippine, in Vietnam e altre nazioni dell’area. Xi Jinping, già impegnato in una difficile lotta interna per imporre le riforme promesse, dovrà aggiungere alla sua agenda i problemi posti dai cinesi fuori confine che non accettano la supremazia della RPC
di Michele Marsonet, lsblog.it,18701/2016
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