Il Dalai Lama parla ai cinesi. Via Twitter

Non potendo fisicamente mettere piede in Cina, il Dalai Lama l’ha fatto per via informatica. Ed è con il microblog Twitter — scambio di messaggi sintetici—che il leader tibetano ha provato per un’ora e mezza ieri sera a dialogare direttamente con i cinesi. I suoi interlocutori sono una élite: le poche decine di migliaia di utenti Internet che, scavalcando la censura, impiegano Twitter. Lo stesso Wang Lixiong, organizzatore della chat, è un cinese han anomalo, che contesta le politiche di Pechino nei confronti del Tibet e del Xinjiang. Wang ha raccolto le domande, ha ottenuto le risposte del Dalai Lama facendole tradurre in mandarino, 1.253 persone hanno posto 289 quesiti e quasi in 13 mila hanno selezionato i migliori.

Il Dalai Lama ringrazia Wang perché nonostante «non abbiamo fatto progressi significativi per migliorare il rapporto con Pechino », tuttavia «ho una grande fiducia nel popolo cinese ». Il colloquio mostra un monaco conciliante, attento soprattutto a rassicurare la controparte, esposta abitualmente alla propaganda della Cina. Lo dimostra la questione più votata: la scelta del prossimo Dalai Lama. Ebbene, spiega il Premio Nobel, «nel ’92 ho proposto che le prerogative del Dalai Lama fossero trasferite a un leader tibetano eletto democraticamente. Non è che si tratti di un metodo tanto importante. Il Partito comunista si è applicato alla materia più di me…». Lo scenario possibile è che tibetani e cinesi scelgano ciascuno un Dalai Lama, com’è accaduto con il Panchen Lama. Sul Panchen Lama che Pechino coltiva come un contro-Dalai Lama per contrastare la popolarità del «separatista », il Premio Nobel è cauto: «Da quel che so è abbastanza intelligente. Studia il buddhismo. I fedeli ancora non sono certi del suo livello di dottrina… Dipende da lui».

Seconda domanda: su quali aspetti il governo tibetano in esilio e Pechino proprio non possono intendersi? «Per le autorità cinesi non esiste una questione tibetana, esiste solo il problema del Dalai Lama. Io non ho aspirazioni, mi curo solo della cultura tib e t a n a . Un giorno il governo centrale riconoscerà che in Tibet ci sono problemi come in Xinjiang, li affronterà e li risolverà. Io lo aiuterò, perché abbiamo lo stesso obiettivo: sviluppare il Tibet, nella solidarietà. Solo che l’approccio cinese è la forza». I netizen cinesi incalzano il Dalai Lama, vogliono sapere delle incomprensioni fra tibetani e cinesi han. «Il rapporto tra han e tibetani—risponde—non risale al ’49 (nascita della Repubblica Popolare, ndr) o al ’50 (occupazione del Tibet, ndr), ma a mille anni fa. Relazione a volte molto armoniosa, a volte conflittuale, come ora. Il motivo è il governo, non il popolo». E qui il Dalai Lama spende parole di credito verso alcuni leader cinesi: «La maggior difficoltà è non realizzare l’approccio di Deng Xiaoping: partire dalla realtà».

Addirittura, il leader tibetano allude alla semi-riabilitazione dell’ex segretario comunista, Hu Yaobang, fatta dal premier Wen Jiabao a metà aprile: «Hu si sforzò molto. L’articolo di Wen ne ha riconosciuto l’approccio: conoscere la realtà locale anziché basarsi sui documenti ufficiali. Lo dico spesso ai tibetani: non pensate che quel che dico sia necessariamente giusto. Osservate e comprendete». Han e tibetani? «Non sono gli unici popoli ad avere delle differenze, ma l’uguaglianza risolve i problemi. Io sottolineo sempre che gli uomini sono tutti uguali, un principio che ho appreso nel ’55 studiando il marxismo». Gli chiedono se il Tibet che vagheggia ospiterebbe l’esercito cinese: «Anche nella mia “autonomia” politica estera e difesa spetterebbero a Pechino». E c’è dell’ottimismo a sorpresa: «Nella storia del Pcc ci sono stati grandi cambiamenti, quindi cambierà anche la politica etnica, soprattutto in Tibet. Decisiva la fiducia reciproca ».

Altro quesito: tanti pensano che la sua autonomia sia invece indipendenza e gli han verranno discriminati… «Il punto chiave è che il Tibet non può diventare come la Mongolia Interna, dove i mongoli sono ormai minoranza». Infine, gli interlocutori cinesi gli contestano una visione idilliaca del Tibet storico, mentre Pechino sottolinea l’arretratezza oscurantista, schiavitù inclusa. «Prima del 1950, era una società arretrata. Lo ammettiamo, mai detto che fosse il paradiso. Nessuno rivuole il vecchio sistema. Ma la propaganda cinese dice che il Tibet fosse l’inferno, e non è vero neanche questo… E’ successo come con il 4 giugno (strage della Tienanmen, ndr), il Partito fa finta che non ci sia mai stato. La cosa importante è che ciascuno possa fare le sue ricerche in modo obiettivo e scientifico». E: «Non ho sempre ragione». Che forse è un modo gentile e cifrato per dire: se mi sbaglio io, magari a volte sbaglia anche il Partito comunista…

Marco Del Corona

Fonte: Il Corriere della Sera, 22 maggio 2010

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