Il “New Deal” della Cina è la sfida più insidiosa del nuovo secolo americano

Sebbene gli USA rimangano la maggior economia industriale del pianeta, la Cina è proiettata a prenderne il posto attorno al 2015. La Cina infatti è certamente il più grande produttore, e spesso il più competitivo, in settori essenziali quali l’acciaio, la cantieristica navale e i prodotti di largo consumo.

Una rassegna dei pilastri del primo secolo Americano a volte potrebbe causare pensieri scoraggianti. Molti di questi pilastri sono stati sprecati o abbandonati, come aveva previsto Daniel Bell nel suo Le contraddizioni culturali del Capitalismo – dalle successive generazioni di Americani nel corso dei decenni che hanno costituito la maggior parte dell’età d’oro del secolo americano. Oggi è banale osservare che due dei pilastri economici, quello industriale e quello finanziario, hanno particolarmente perso vigore. Un paragone con la Cina rende questa affermazione palese.

Sebbene gli USA rimangano la maggior economia industriale del pianeta, la Cina è proiettata a prenderne il posto attorno al 2015. E la Cina è certamente il più grande produttore, e spesso il più competitivo, in settori essenziali quali l’acciaio, la cantieristica navale e i prodotti di largo consumo. Parimenti, la Cina si sta velocemente espandendo e migliorando nel comparto automobilistico e in quello chimico. Questi sono stati i settori essenziali di ogni solida economia industriale, e sono stati, di regola, i promotori di massicci profitti per le esportazioni. (Assieme alla produzione di aerei, questi settori hanno permesso agli USA di vincere la Seconda Guerra mondiale, e hanno a lungo servito come fondamento della “American way of war”).

La superiorità industriale della Cina, e i guadagni dalle esportazioni che essa comporta, si è ovviamente tradotta in forza finanziaria. Raggiunti i 2 triliardi, le riserve cinesi in valuta estera – per la maggior parte in dollari americani – attualmente superano quelle di ogni altro Paese. L’anno scorso, il Governo cinese ha usato la leva fornitagli dagli 800 miliardi di dollari investiti in obbligazioni del Tesoro americano per fare pressione sul Tesoro USA e sulla Federal Reserve riguardo alle loro misure incidenti sul valore del dollaro. Ancor più significativo è il fatto che la Cina abbia usato la sua forza finanziaria per implementare il programma di stimolo all’economia di maggior successo tra quelli varati finora per far fronte alla recessione globale. Nel 2009, i più efficaci sostenitori della politica fiscale di matrice keynesiana sono stati i cinesi.

La risposta del Governo cinese all’attuale crisi economica mondiale è molto simile alla risposta data dal Presidente Franklin Roosevelt contro la Grande Depressione. Come il New Deal di Roosevelt, la versione cinese è incentrata su una spesa pubblica su larga scala destinata a colossali progetti infrastrutturali come autostrade, ferrovie, ponti, dighe, elettrificazione rurale, edifici pubblici. Questi progetti infrastrutturali non solo garantiscono mercati stabili e continua occupazione per industrie basilari come l’acciaio, il cemento, i macchinari pesanti e l’edilizia; ma portano anche a un aumento della produttività di lungo periodo per l’economia nazionale.

In contrasto sia con l’Amministrazione Roosevelt negli anni ‘30 che con il Governo cinese oggi, l’Amministrazione Obama sta spendendo poco in nuove infrastrutture. La maggior parte del suo programma di stimolo è rivolto semplicemente al mantenere gli asset esistenti e il tasso di occupazione in settori selezionati dei servizi (e nei collegi elettorali del Partito Democratico), in particolare nei governi statali e locali e nella pubblica istruzione.

Le somiglianze tra la risposta USA alla Grande Depressione e le misure adottare dal governo cinese nei confronti dell’attuale crisi recessiva globale non sono casuali. Sia gli USA di quell’epoca che la Cina di oggi possiedono una vasta struttura industriale che ha improvvisamente sofferto per colpa della sottoutilizzazione e dell’eccesso di capacità produttiva. Con una parte così grande dell’economia destinata all’industria, e con l’industria che riceve una spinta così grande dalla politica, per i governi diventa naturale enfatizzare il rilancio dell’industria e della manifattura. Un programma di rilancio di un’economia imperniata sull’industria (nonché influenzata dall’industria) punterà normalmente l’accento sulla spesa governativa e su una qualche forma di politica fiscale keynesiana.

Tuttavia, negli Stati Uniti degli anni recenti, l’industria ha giocato una parte più ridotta nell’economia rispetto agli anni ‘30 e a quella giocata nella Cina di oggi. La finanza è diventata il singolo maggior settore economico, nonché il più redditizio e prestigioso; non è sorprendente accorgersi che la finanza è divenuta anche il settore economico più influenzato dalla politica. Ciò ha significato che la risposta dell’America alla crisi economica – prima quella dell’Amministrazione Bush nel 2008 ed ora quella della Presidenza Obama nel 2009 – è stata incentrata sulla finanza (ed influenzata da quest’ultima). È per questo che si è puntato sul salvataggio di istituti finanziari “too big to fail”, sulla manipolazione dei tassi di interesse e sulla politica monetaria (una sorta di “friedmanismo”).

La reale e inquietante analogia tra l’economia USA e le politiche economiche del presente, quindi, non è quella con l’America degli anni ‘30, bensì il Regno Unito dello stesso periodo. In quel periodo, i decenni in cui la Gran Bretagna era “la fabbrica del mondo” erano da tempo tramontati; l’economia inglese era basata sulla finanza, ed i Governi inglesi agivano sulla politica economica di conseguenza. La City (e Lombard Street) aveva ancora più autorità di quanto non ne avesse oggi Wall Street in America). Il risultato era che, durante la Grande Depressione, la Gran Bretagna non intraprese neppure una mossa che rassomigliasse al deficit spending e alla politica fiscale del New Deal (niente di simile al keynesismo nel Paese di Keynes). Al contrario, il Regno Unito ha vissuto un “decennio perduto” di tetra stagnazione, che ha condotto a sua volta all’incapacità di sostenere in seguito lo status di potenza mondiale.

In breve, se le tendenze e le politiche economiche attuali della Cina dovessero continuare, il risultato sarà che la Cina uscirà dalla crisi economica con la sua economia più sviluppata e diversificata di quanto non fosse prima delle turbolenze economiche. Al tempo stesso, se le tendenze e le politiche economiche attuali intraprese dagli Stati Uniti continueranno, l’uscita dalla crisi vedrà una economia americana più distorta e più debilitata del periodo prima della crisi.

Superiorità tecnologica. È opportuno ricordare che le politiche economiche dell’Amministrazione Roosevelt – sia il New Deal che la spesa militare, sia il keynesimo civile che il quello militare – diedero vita a una vasta e variegata struttura industriale che non rappresentava solo la fabbrica del mondo, ma anche le sue meraviglie (come esemplificato dall’Esposizione Universale di New York del 1939). Questa struttura industriale era pienamente operativa nel 1941, e costituì le fondamenta del secolo americano. Se vogliamo prenderne spunto per affrontare l’attuale crisi economica mondiale, dobbiamo produrre un risultato simile, e possiamo farlo solo attraverso la costruzione dell’unico pilastro sano che ci rimane: la nostra storica superiorità tecnologica.

La Cina sta investendo massicciamente per raggiungere la nostra forza tecnologica, espandendo e migliorando velocemente le università e gli istituti di ricerca, ma sta anche investendo in una educazione rigorosa per l’intera popolazione. Sebbene queste misure siano risultate efficaci nell’aumentare in maniera stabile la produttività economica, storicamente un’economia necessita di molti anni per tradurre la propria superiorità industriale e finanziaria in superiorità tecnologica. (Per esempio, gli Stati Uniti raggiunsero la superiorità industriale negli anni Novanta del Diciannovesimo secolo e la superiorità finanziaria nel primo decennio del Novecento, ma le sue università non superarono nettamente le migliori università inglesi e tedesche che nella Seconda Guerra mondiale). La questione centrale e strategica circa quale Paese otterrà la superiorità tecnologica del futuro sarà legata a quale Paese guiderà i nuovi settori economici del domani.

Oggi, gli ovvi candidati a rientrare in questi settori sono le nuove fonti energetiche sostenibili o “verdi” e il loro utilizzo, nuovi prodotti e processi basati sulle biotecnologie, e nuovi trattamenti medico-sanitari. (Si potrebbe pensare che gli ultimi due candidati non siano veramente distinti, ma si commetterebbe un errore: le implicazioni economiche delle biotecnologie e gli usi della “biomimicry” sorpassano di gran lunga le applicazioni medicali, e non tutti i nuovi trattamenti medici necessitano della sola biotecnologia). È interessante notare che l’Amministrazione Obama ha specificato come i progressi nel campo dell’energia e della medicina siano al centro della sua visione futuribile dell’economia americana, e che questi settori, assieme all’istruzione, occupano una posizione di rilievo nel ritratto pubblico del suo programma di stimolo economico e delle priorità di budget presentato dall’Amministrazione.

I settori economici ancora potenziali dell’energia sostenibile, della biotecnologia e del mondo medico e sanitario sono chiaramente di importanza vitale per un vasto numero di persone sparse per il mondo. In più, quei Paesi con economie industrializzate o in via di sviluppo potrebbero essere in grado ma anche desiderose di spendere ingenti somme per importate i nuovi prodotti e processi produttivi di questi settori. Se gli Stati Uniti riusciranno a raggiungere una posizione di leadership in questi settori, come hanno fatto nel Ventesimo secolo per l’aerospaziale, l’informatica e le telecomunicazioni, riusciranno a garantirsi un solido pilastro per una ancor più estesa leadership americana nel mondo del Ventunesimo secolo. I cinesi, tuttavia, non sono indifferenti alla promessa di almeno uno di questi nuovi settori, le energie rinnovabili, che attualmente ritengono di importanza strategica. Negli anni scorsi, come parte del pacchetto di stimolo dell’economia, i cinesi hanno cominciato a costruire enormi centrali eoliche e solari e a sviluppare promettenti automobili a batteria.

Dovrebbe essere un obiettivo primario del Governo Usa quello di mantenere o ancor meglio accrescere la superiorità tecnologica degli Stati Uniti, in particolar modo sviluppando i nuovi settori economici che diventeranno leader nei mercati internazionali. Questo comporterà la promozione e l’abilitazione delle tradizionali colonne sui cui si fonda la superiorità tecnologica americana: il sistema universitario, con i suoi numerosi scienziati e ingegneri; il sistema del libero mercato, con i suoi tanti innovatori e imprenditori; e il sistema d’istruzione per la maggioranza della popolazione (che certamente ha un gran bisogno di essere migliorato).

Alcuni economisti hanno sostenuto che solo scienziati e ingegneri di alto livello sono importanti ai fini della produttività economica e della competitività internazionale, e che il livello d’istruzione generale della popolazione non conta. Tuttavia, le invenzioni di questi scienziati e ingegneri devono essere trasformate ed allargate in interi settori economici. Ciò richiede il sostegno di una larga base di lavoratori intelligenti, qualificati e diligenti, in campo industriale, tecnico e impiegatizio, una base che deve essere continuamente riprodotta e migliorata grazie al sistema educativo. In ogni caso, gli Stati Uniti non saranno in grado di continuare a godere di una economia produttiva e competitiva se non continueranno a sostenere il grande e crescente numero di persone che soffrono di un deficit di educazione e sono perennemente inoccupate e sottoccupate.

Per fare in modo di migliorare l’istruzione generale, è forse tempo di ritornare al vecchio valore Americano della concorrenza. Molti tentativi di riformare il monopolio delle scuole pubbliche (più precisamente, le scuole governative) sono falliti; la soluzione si troverà lasciando che una grande varietà di scuole private entri liberamente in concorrenza con le scuole pubbliche. Tutte le migliori scuole potranno ricevere assistenza pubblica; nessuna godrà di una posizione monopolistica. Sfortunatamente, dato che uno dei principali collegi elettorali del Partito Democratico risiede nelle associazioni degli insegnanti delle scuole pubbliche, le politiche educative dell’Amministrazione Obama saranno in grado solo di peggiorare lo stato delle cose.

Il corollario militare. Anche se riuscissimo a rivitalizzare la nostra economia attraverso la leadership scientifico-tecnologica, dovremmo comunque ancora ricreare un “American Way of War” di successo e adatto alle attuali circostanze. Questo ci porta alla questione di come avremo la meglio sui movimenti degli insorti e sulle altre “fionde e frecce” di attori non-statali ostili agli Usa. Da un lato, la opaca (ma ancora dibattuta) esperienza americana con la counterinsurgency in Vietnam – che giunse all’apice del primo secolo americano – convinse l’apparato militare americano, per più di una generazione dopo il conflitto, che la stessa counterinsurgency risultava incompatibile con ogni possibile versione del modus operandi bellico americano. Dall’altro, il recente successo in Iraq della nuova (per la verità rinnovata) dottrina del counterinsurgency offre una nuova speranza.

L’indizio per l’enigma proposto dalla guerra alla “insorgenza” sta nel guardare ancora più da vicino alle caratteristiche del modello di guerra americano come sono state mostrate nella storia militare degli USA. Abbiamo già menzionato le ben note caratteristiche della massa schiacciante e della mobilità ad ampio raggio, assieme a quella addizionale dell’alta tecnologia. Ma quando gli USA combatterono guerre nel Ventesimo secolo, proposero un’ulteriore elemento distintivo: una grande fiducia nelle forze di terra alleate. Nella Prima guerra mondiale, le armate francesi ed inglesi; nella Guerra di Corea, l’esercito sudcoreano; e nella Guerra del Vietnam, le armate del Vietnam del Sud. Anche nella Guerra del Golfo del 1991, l’esercito USA operò con parecchie unità di terra fornite da altri membri della “Coalizione dei volenterosi” (ad esempio, quelle di Gran Bretagna, Francia e Arabia Saudita).

In breve, la “massa schiacciante” delle forze terrestri americane è sempre stata un’illusione; le forze di terra degli alleati USA erano spesso più numerose (anche se meno efficienti ed efficaci) di quelle degli Stati Uniti, e queste forze alleate spesso assumevano molti dei compiti militari a più alta intensità di lavoro. Il piccolo, sporco segreto del modello di guerra americano risiede nel fatto che gli alleati dell’America hanno abitualmente fatto gran parte del lavoro sporco.

Questo segreto è stato riscoperto dai corpi dell’esercito e della marina americana ed applicato in Iraq nel biennio 2006-07. I vertici militari hanno capito che la chiave per una counterinsurgency di successo era allearsi con le forze locali – in questo caso le tribù sunnite del “Risveglio dell’Anbar” – che avevano i loro buoni motivi per opporsi agli insorti di Al Qaeda. L’esercito USA sta ora provando a mettere in pratica una simile strategia in Afghanistan, cercando di dividere le varie tribù Pashtun dai Talebani. Tuttavia, una delle ragioni per cui i ribelli sunniti si allearono con gli USA in Iraq fu che temevano sia la maggioranza governativa sciita sia gli insorti di Al Qaida. Le tribu pashtun in Afghanistan non hanno timori del genere, e quindi non hanno neppure bisogno di un incentivo paragonabile che li spinga ad allearsi con le forze americane.

La lezione di carattere generale da trarre circa il potenziale per ogni “American Way of counterinsurgency” è che gli USA dovranno sempre fare affidamento sulle forze locali, siano esse forze militari o semplici milizie, le quali possiedono capacità proprie che gli permettono di intraprendere una efficace counterinsurgency. L’esercito USA potrà essere in grado di aggiungere ingredienti essenziali o condizioni necessarie (come, ad esempio, armi efficaci, addestramento professionale, mobilità e logistica, o semplicemente denaro), ma non potrà mai riuscire da solo nel lavoro sporco ed estenuante della guerra contro-insurrezionale. Questo significa che gli USA non dovranno intraprendere una campagna del genere finché non avranno sviluppato una adeguata conoscenza ed una chiara visione delle forze locali e dei potenziali alleati in un dato scenario.

In pratica, ciò significa anche che gli Stati Uniti dovranno cercare di risolvere i propri problemi senza ricorrere in nessun caso all’esercito regolare per le operazioni anti-insurrezionali. Piuttosto, l’obiettivo principale dell’apparato militare USA dovrebbe concentrarsi sullo scoraggiare la guerra e, se la guerra si manifesta, sconfiggere le forze militari delle altre grandi potenze mediante tutte le forme che la guerra ha assunto nel Ventunesimo secolo. La ragione per la quale gli Usa vengono attaccati solo a livelli sub-convenzionali non è perché non esista un motivo per attaccarci su altri piani; è perché nessuno osa sfidarci su altri livelli. Se perdessimo questa superiorità tecnologica, qualcuno potrebbe ben osare.

La cultura popolare e l’idealismo americano. La riconfigurazione ed il rinnovamento dei suoi pilastri economico e militare metterebbero ancora una volta gli Stati Uniti, mettendoli in grado di esercitare una posizione di guida nel mondo. Tuttavia, dopo aver ricreato la propria abilità nell’essere leader globale, gli Stati Uniti dovrebbero anche imparare nuovamente ad agire come tale. Per quasi due decenni, i decisori politici americani hanno spesso agito verso le altre nazioni, in particolar modo verso le altre grandi potenze, in un modo tale da garantirsi il loro disdegno e disapprovazione, finanche la loro rabbia e il loro disprezzo. Questo richiede che poniamo una certa attenzione sia allo stile culturale della leadership americana sia al contesto di potere nel quale quest’ultimo viene esercitato.

Con tutto il gran discutere tra analisti politici americani riguardo al “soft power” e alla capacità di attrazione della cultura popolare americana agli occhi del resto del mondo, si dimentica spesso che questa stessa cultura popolare è principalmente popolare tra i giovani – in particolar modo tra quei giovani ancora irresponsabili, ribelli e incoscienti. Non attrae così spesso le persone mature, specialmente quelle persone abbastanza mature da essere a capo delle loro famiglie, comunità o Paesi e responsabili per la loro sicurezza e prosperità.

In breve, la cultura popolare americana è una cultura per adolescenti, non per adulti, e gli adulti in giro per il mondo conoscono questa verità e si comportano di conseguenza. Se i leader americani vogliono guidare i capi di altri Paesi, devono agire come adulti responsabili, non come le celebrità della cultura popolare americana in cerca di attenzione.

In maniera analoga, con tutto il gran dibattere tra esperti e decisori politici americani riguardo all’“idealismo” americano e all’attrazione dei valori americani per il resto del mondo, si dimentica sovente che gran parte dei leader politici in altri Paesi sono uomini realisti che fanno calcoli razionali sugli interessi del loro Paese (e sui propri interessi). Essi si aspettano che i leader di altri Paesi, Stati Uniti inclusi, facciano lo stesso. Questo è particolarmente vero per gli attuali leader di Cina e Russia.

Avendo imparato tutto sui richiami dell’ideologia mentre stavano crescendo, ed avendo messo da parte l’ideologia quando sono diventati adulti, essi non possono veramente credere che la classe politica americana pensi davvero che gli ideali degli Usa debbano essere promossi per il loro bene, grazie alla loro “validità universale”, piuttosto che essere una legittimazione o una copertura degli interessi degli USA. Se i leader americani vogliono guidare le loro controparti di altri Paesi, dovranno agire nello stile dei realisti, e non in quello degli idealisti.

Ciò comporta una scelta chiave. Il realismo ci chiede di declinare il nuovo contesto del Ventunesimo secolo delle grandi potenze nel quale gli USA vorranno esercitare la leadership. Sebbene la riconfigurazioine dei pilastri economico e militare renderanno l’America lo Stato più importante del pianeta, non sarà comunque più uno Stato dominante. Ci saranno altre grandi potenze: alcune emergenti come Cina ed India; altre in declino come l’Unione Europea e il Giappone; altre in crescita per alcuni aspetti e in declino o instabili in altri sensi come Russia, Iran e Brasile.

Se gli Stati Uniti vorranno essere un leader efficace e costruttivo nelle relazioni internazionali, dovranno mostrarsi in grado di guidare almeno alcune di queste potenze in questioni di importanza globale. Queste questioni includono le minacce provenienti dai network terroristici transnazionali, la proliferazione nucleare, l’economia globale, le epidemie globali e il riscaldamento climatico.

Soprattutto, gli Stati Uniti dovranno trattare in maniera efficace e costruttiva con Cina, India e Russia, potenze che saranno emerse o rinate al punto da provare ad essere preminenti o anche dominanti in una particolare regione – il che significa ricavarsi qualcosa come una tradizionale sfera di influenza. Per la Cina, l’Asia Sud-Orientale – per l’India (adesso non ancora, ma nell’arco di un decennio), l’Asia Meridionale e possibilmente le spiagge del Golfo Persico; e per la Russia l’Asia Centrale e il Caucaso, ma anche i vicini Stati slavi (e ortodossi), Bielorussia e Ucraina.

Per quanto concerne queste grandi potenze e queste regioni, gli Stati Uniti dovranno prendere una decisione. Possono provare a guidare piccoli Stati all’interno di una regione in una sorta di opposizione o di alleanza contro l’aspirante potenza regionale, come hanno fatto con Georgia e Ucraina contro la Russia. Oppure possono permettere allo “Stato-guida” di esercitare la leadership nella sua regione, mentre quella potenza a sua volta permette agli Stati Uniti di esercitare una più ampia leadership sulle questioni di rilevanza globale.

Scegliere quest’ultima opzione non significherebbe niente di particolarmente nuovo o originale. Anche quando gli USA erano al picco del proprio ruolo di superpotenza, con riluttanza, ma in maniera realista, permisero all’Unione Sovietica di dominare l’Europa Orientale. Tuttavia, quel tipo di controllo intrusivo, politico ed economico, si spinse ben al di là delle tradizionali norme intese come sfera di influenza. Per la maggior parte, le grandi potenze dominanti nella loro regione sono state soddisfatte nell’avere i loro interessi vitali preservati – assieme a qualche presenza economica – mentre permettevano una sufficiente autonomia politica all’interno dei piccoli Stati.

In questo senso, a corrispondere alla norma tradizionale era il rapporto tra Urss e Finlandia piuttosto che tra i sovietici con quei vicini a cui aveva imposto dei regimi comunisti. Infatti, anche la relazione attuale della Russia con buona parte delle vecchie Repubbliche sovietiche in Asia Centrale rientra nella norma, portando a pensare che lo schema tradizionale (che le Amministrazioni Bush e Obama hanno deriso perché così in stile Diciannovesimo secolo) può ragionevolmente essere migliorato per rientrare nei parametri del Ventunesimo secolo.

Il Diciannovesimo secolo presentava delle caratteristiche peculiari. Alcuni storici l’hanno ridefinito come “il “secolo”, il periodo compreso tra il 1815 e il 1914 – tra la fine delle Guerre napoleoniche e gli albori della Prima Guerra mondiale. Con il Diciannovesimo secolo comincia un’era caratterizzata dall’assenza di guerre generali e dal rapido sviluppo economico, una rara epoca di pace e prosperità. E se c’era una nazione che veniva identificata con quell’era di pace e prosperità, si trattava della Gran Bretagna. Verso la fine del Diciannovesimo secolo, era largamente riconosciuto che il secolo trascorso aveva avuto un’impronta britannica. Certamente, nessun’altra potenza o stile di vita poteva reclamare quel titolo.

Ma sebbene la Gran Bretagna fosse la più importante delle grandi potenze, non si può dire che abbia dominato con la stessa grandezza manifestata dagli Stati Uniti nell’immediato periodo del secondo dopoguerra. Certamente, dominava gli oceani con la Royal Navy; era leader mondiale nell’economia, dapprima nell’industria e poi in campo finanziario; ed era una potenza preminente in molte questioni di rilevanza globale, come la repressione della tratta degli schiavi, la pirateria e lo sviluppo del diritto internazionale.

Ma il Regno Unito non era una potenza dominante in nessun continente (tranne l’Australia) o regione particolare (tranne l’Asia Meridionale all’epoca del Raj). Piuttosto, si riteneva soddisfatta della divisione dei continenti in sfere di influenza in competizione tra loro, le quali potevano poi risultare in equilibri di potere su scala continentale (in Europa, Africa, Asia Orientale e anche in America del Sud). Il Regno Unito era la potenza leader del pianeta perché permetteva in gran parte alle altre grandi potenze di essere dominanti nelle loro regioni di riferimento. Ciò consentiva alla Gran Bretagna di essere leader tra i leader senza bisogno di dover chiedere un esplicito permesso.

Gli Stati Uniti non saranno mai più una potenza dominante come lo sono stati durante il secolo Americano, soprattutto nel periodo dagli ultimi anni Quaranta fino ai primi anni ‘70. Storicamente, quella è stata una fase anomala sotto molti profili. Ma un secolo può ancora essere definito e formato – e può ancora essere guidato verso maggior pace e prosperità – da una nazione che è la più importante delle grandi potenze. E i posteri riconoscenti un giorno potranno guardarsi indietro e onorare quella nazione attribuendo il suo nome a un nuovo secolo.

Fonte: Il legno storto, 3 novembre 2009

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