Il regime cinese ha sostituito la televisione all’aula dei tribunali
I recenti “mea culpa” trasmessi dalla tv di Stato cinese CCTV dei difensori dei diritti umani e dei dissidenti dimostra che la Cina non processa i presunti colpevoli in una aula di tribunale, ma in televisione.
Ricordo le “confessioni” nei giorni scorsi di Gui Minhai, uno dei cinque librai di Hong Kong scomparsi in circostanze misteriose, e di Peter Dahlin, attivista per i diritti umani svedese che lavorava per una piccola ong di Pechino.
Questi “indiziati” non avevano ancora subito nessun processo, non avevano nemmeno potuto incontrare un avvocato e non sono stati formalmente accusati di nulla.
E’ superficiale dibattere sulla sincerità di queste confessioni chiaramente forzate. E’ una lotta paradossale contro gli attivisti dell’imperare del governo cinese. Il suo immenso potere crolla come un gigante dai piedi di argilla di fronte alle campagne contro i giornalisti, l’informazione, le organizzazioni per i diritti umani. Esempi di giustizia arbitraria della tanto decantata e osannata Cina. Il terrore ora corre anche via televisione in un gioco atroce che evidenzia il carattere dispotico del regime cinese che ci riporta alle politiche dissennate dei tiranni delle dinastie cinesi e non si addice a una potenza moderna.
Le aule dei tribunali vengono sostituite dalle telecamere che accusano mentre quel che non si vede è la difesa.
Xi Jinping e i suoi fidati collaboratori non mancano mai di fare riferimenti allo Stato di Diritto, quando se ne presenta l’occasione. Il tutto si sfascia di fronte alle confessioni televisive. Sono mirate a far sapere a chiunque che qualsiasi macchinazione contro il governo cinese il PCC è in grado di renderla vana.
Il potente vuole devastare e vuole proibire una discussione dei diritti. Non tollera individui che cercano la libertà, la democrazia, lo stato di diritto, la dignità e chi lotta per non essere ridotto in schiavitù.
Gianni Taeshin Da Valle, Laogai Research Foundation, 03/02/2016
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