Il sonno della ragione genera mostri. Ma quando ci si sveglia?
Confesso che qualche giorno fa, leggendo la Nota al “Memorandum sulla genuina autonomia per il popolo tibetano” pubblicata dal governo tibetano in esilio, non ho potuto non pensare alla famosa acquaforte realizzata dal pittore Francisco Goya nel 1797 (El sueño de la razon produce monstruos). In particolare (oltre al tono supplichevole dell’intero documento) alcune frasi avevano risvegliato nella mia memoria il ricordo di quell’uomo addormentato su di un tavolo circondato da volti animali ghignanti, da felini dall’espressione diabolica e da sinistri uccelli della notte.
Ad esempio questa frase: “Il memorandum non vuole in alcun modo contestare il sistema socialista della Repubblica Popolare Cinese. Niente in esso può far pensare che si chieda di cambiare questo sistema o che le aree tibetane ne siano escluse”.
O questa, “Le proposte contenute nel Memorandum in nessun modo implicano una messa in discussione dell’autorità del Congresso Nazionale del Popolo o degli altri organi del Governo centrale cinese”.
O quest’altra ancora, “E’ ovvio che i tibetani all’interno della Repubblica Popolare Cinese hanno anche fatto dei progressi e migliorato la loro situazione sociale, educativa, sanitaria ed economica”.
Sì, il sonno della ragione produce dei mostri. Mostri che coloro i quali non hanno mandato a dormire la propria ragione, riescono a vedere con chiarezza al contrario di quanti si ostinano (con una pervicacia degna veramente di miglior causa) a prendere i propri desideri per realtà. Crollando infine addormentati in compagnia dei peggiori fantasmi. Però, da questo sonno malsano ci si può svegliare. Si può tornare a vedere le cose per come esse sono e non attraverso il filtro deformato di un Io desiderante che nella storia non ha mai fornito buoni consigli a nessuno. Forse un segno di un possibile risveglio potrebbe essere visto nelle commemorazioni che il governo tibetano in India ha celebrato pochi giorni fa per onorare il centenario dell’esilio indiano di Tupten Gyatso, il 13° Dalai Lama (sempre sia lodato il suo nome). Quel Dalai Lama che ancora oggi i tibetani ricordano come il “Grande Tredicesimo” e che fu sicuramente una delle menti più illuminate (e certo non solo in senso religioso) dell’intera storia del Tibet. Quel Dalai Lama, “monaco, mistico e capo di stato” per dirla con le parole dello studioso Glenn H. Mullin che gli ha dedicato una documentata biografia (“Path of the Bodhisattva Warrior: the Life and Teachings of the Thirteenth Dalai Lama”). Quel Dalai Lama che non si arrese mai alle avverse condizioni in cui dovette governare il Tibet ma che al contrario combattè con coraggio e tenacia perché il suo popolo fosse libero e consapevole dei necessari cambiamenti di cui l’arcaica società tibetana aveva bisogno. Infatti, pur rimanendo fedele alle ragioni della memoria e della tradizione, Tubten Gyatso cercò in tutti i modi di aprire il Tibet al mondo contemporaneo ben consapevole di quali sconvolgimenti fosse portatore il XX secolo. Purtroppo settori della classe dirigente tibetana, in modo particolare le frange più retrive del clero e dell’aristocrazia, non riuscirono a comprendere la lungimiranza del “Grande Tredicesimo”, prima rallentando la spinta propulsiva delle riforme e poi, dopo la sua morte (17 dicembre 1933), dimenticando in fretta la sua preziosa lezione.
Quindi ricordare il 13° Dalai Lama oggi, può essere per Dharamsala un motivo di riflessione sia sul passato sia sul presente sia, ancor più, sul futuro del Tibet. Un motivo di riflessione su quanto sia inutile sperare che rinunciando a tutto si possa ottenere qualcosa dall’attuale dirigenza cinese. Un motivo di riflessione su cosa significhi quel “sistema socialista” che il “Memorandum non vuole in alcun modo contestare”. Cosa significhi non solo per i tibetani, ma anche per gli uiguri, i mongoli e per tutti quei cinesi che non sono per niente felici di vivere sotto il peso di quel “sistema socialista”. Dunque ben vengano le celebrazioni per il centenario dell’esilio indiano del 13° Dalai Lama. Motivo di speranza, dicevo. E motivo di speranza ancora maggiore sono le parole, riportate dal sito web “Tibet Custom” (http://www.tibetcustom.com/), del primo ministro tibetano Samdhong Rinpoche secondo il quale il governo tibetano in esilio si preparerebbe a ricordare nel 2012 anche il centenario del ritorno in Tibet del 13° Dalai Lama e la sua dichiarazione dell’indipendenza tibetana.
Che il sonno della ragione stia volgendo al termine? Lo vedremo a breve. Nel frattempo voglio attenermi al consiglio che sovente dà l’attuale Dalai Lama, “Prepararsi al peggio ma sperare sempre nel meglio”.
Piero Verni, 3 marzo 2010
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