In Cina è sempre medioevo

Stefano Zecchi lo scorso 19.12.17 ha pubblicato, su il Giornale.com, un interessante articolo intitolato : “La nuova Cina che resta al medioevo morale. Tutti in gita allo stadio per vedere l’esecuzione”.

Si spiega che nella regione di Guangdong, in una piazza che potrà contenere un migliaio di persone, si sta allestendo uno spettacolo pubblico in cui dieci persone, accusate di spaccio di droga, verranno giustiziate con un colpo di pistola alla nuca. Come prassi cinese, il costo del proiettile verrà poi addebitato alla famiglia del condannato.

Il pubblico è stato convocato ad assistere all’esecuzione/spettacolo attraverso ogni mezzo di comunicazione: web, manifesti, radio. E tutti accorrono numerosi.

E’ vero che tanti paesi adottano la pena di morte per i reati piu’ gravi ma in Cina l’esecuzione viene trasformata in una sorta di celebrazione pubblica, con cui si ritiene di educare il popolo al rispetto della legge. Cosí si sollecita anche la curiosità morbosa degli spettatori che avvertono un sentimento di reciprocità con il potere che infligge la pena. Lo spettatore pensa: “io sono bravo e mi merito di vivere, tu sei malvagio ed è giusto che ti puniscano, anche con la morte”.

Ma come è possibile che in un paese apparentemente moderno, membro permanete del consiglio di sicurezza dell’Onu, che ha l’ambizione di ridefinire l’ordine mondiale (e quindi anche quello Occidentale), possa essere rimasto ancorato a riti cosi arcaici e brutali? La Cina moderna prende spesso ispirazioni dalle sue tradizioni, infatti questo tipo di logica si rifà alla Cina confuciana del XV secolo, in cui si enfatizzava la necessità di comminare in modo visibile le massime punizioni alla scopo di incutere timore ed ottenere l’obbedienza (Baizhan qilue).

Ormai abbiamo capito che piú si approfondisce la conoscenza della Cina e piú si ottengono informazioni quantomeno inquietanti. Tuttavia in questo caso, l’aspetto piú allarmante è rappresentato dai contenuti di molti post pubblicati dai lettori che commentano l’articolo. Si nota che una significativa fetta della nostra società non riesce ad andare oltre a considerazioni banali e dimostra di non saper comprendere la vera natura del problema. Per molti il modello da elogiare e da copiare è quello cinese mentre il vero problema sarebbe l’Italia dove il “criminale se la cava sempre”.

Indubbiamente la nostra macchina della giustizia ha evidenti problemi, ma è semplicemente folle prendere come esempio un paese come la Cina, in cui non esistono i diritti umani e lo Stato di diritto, “cioè quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo, insieme con la garanzia dello stato sociale”.

Il sistema giudiziario cinese è approssimativo e corrotto, privo delle minime garanzie legali per gli accusati. Il sistema di detenzione si basa sui Laogai (i lager/prigione cinesi) ed il Laojiao è un sistema di detenzione amministrativa per cui si puó essere imprigionati direttamente dalla polizia senza nessuna sentenza, fino a 3 anni. Il Laojiao è infatti principalmente usato per persecuzioni contro dissidenti, religiosi e credenti di tutte le religioni. Pestaggi e torture sono lo strumento per estorcere le confessioni (laogai.it).

Molti superficiali commentatori all’articolo di Stefano Zecchi dovrebbero approfondire il significato e la differenza tra essere un cittadino ed essere un suddito e quindi imparare ad apprezzare la condizione privilegiata che la nostra società tutto sommato garantisce, soprattutto se paragonata a realtà come quella cinese, dove in molti ambiti il tempo è fermo all’epoca medioevale. I nostri privilegi sono il frutto di un lento e faticoso processo evolutivo della società, un patrimonio da difendere da stupidità e ignoranza.

Marzio Ammendola, 27/04/2018

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