La Cina, il nostro welfare in crisi e un sommesso elogio all’Unione

Un segnale premonitore – per chi avesse voluto vederlo – era pervenuto all’Europa già dai tempi della vertiginosa ascesa del Giappone: in pochi anni intere aree di mercato – spesso ad elevata tecnologia – divennero appannaggio quasi esclusivo dei figli del Sol Levante. Così automobili, macchine fotografiche, audio, video e molti altri nuovi prodotti “inventati” e introdotti trionfalmente sul mercato – tutta roba che un tempo era prodotta per lo più in Occidente – furono sottratti in pochi anni alle imprese che li producevano fra noi, sia pure in un contesto di consumi più limitati. Nel frattempo altri paesi emergenti, meno dinamici e meno tecnologici del Giappone, ma con costo del lavoro bassissimo, tagliavano l’erba sotto i piedi ai paesi come l’Italia, il cui boom si era basato anche sulla produzione di beni di consumo durevoli a ridotta tecnologia (motori elettrici, pneumatici, elettrodomestici…), quando ancora la manodopera nazionale poteva considerarsi relativamente economica.

Ora, con l’avvento sullo scenario mondiale e sui mercati aperti di una potenza industriale enorme come la Cina, il fragile equilibrio su cui si basa il nostro livello di vita, la nostra sicurezza del “posto” e in generale il welfare di Stato – con le sue pensioni, le sue “giuste cause”, i suoi “diritti” alla salute, al lavoro, alla casa, alla promozione…– sembra destinato a venir meno e ad entrare in una crisi profonda. Tutto questo è troppo gravoso, troppo insostenibile, quando in un’altra parte del mondo, raggiungibile con poche ore di volo, gli stessi prodotti e gli stessi lavori costano assai meno rispetto al Vecchio Continente, e anche rispetto agli Stati Uniti. E dove i summenzionati “diritti”, figli di una cultura costituitasi e consolidatasi in periodi di predominio tecnologico e di monopolio nel mondo, praticamente non esistono.

La prospettiva non è per noi incoraggiante e non è politicamente appetibile, per cui nessuno osa proporcela con la necessaria chiarezza: qualcuno cerca di ritardare l’esplosione dei sistemi del welfare degli Stati europei – la spesa è sempre più enorme e sempre più insostenibile – ponendo freni all’importazione - ma sono freni che possono funzionare finché le produzioni tenute fuori dal mercato interno non sono troppo appetibili –; o ipotizzando altre tasse e prelievi patrimoniali da un sistema già spremuto e ridotto alla improduttività per mancanza di energie e risorse residue. Altri, come i sindacati, si dimostrano incapaci di cogliere il cambiamento epocale verificatosi tra il XX ed il XXI secolo, e tentano di aggrapparsi a parole d’ordine ed a rivendicazioni che appaiono patetiche o irresponsabile di fronte a un intero continente che annaspa. Ma al momento, sembra che per continuare a galleggiare la sola ricetta che abbia qualche speranza di successo stia nella drastica riduzione della spesa dello Stato – e conseguentemente anche, almeno in parte, dei suoi servizi –, e in una innovazione tecnologica e scientifica che richiederebbe, oltre ad un personale capace e motivato, anche una strategia: finanziamenti selettivi alla ricerca, borse di studio davvero meritocratiche, eccetera. Una strategia che consenta di sviluppare nuove tecnologie e nuovi prodotti appetibili a livello internazionale.

Invertire la rotta di un grande vascello indirizzato da anni nella direzione dello Stato-mamma non è certo agevole. La crisi che sta attraversando la Grecia è solo un triste “aperitivo” di quello che potrebbe avvenire in Europa se ancora si tarderà nella presa di coscienza del fatto che con il volgere del secolo anche le nostre culture politiche debbono profondamente rinnovarsi, e le nostre aspettative dallo Stato debbono ridimensionarsi – il che non esclude affatto che da quello che resterà dello Stato dobbiamo aspettarci un’efficienza assai superiore dell’attuale.

Davvero rivolgimenti epocali, che prima o poi, se non pilotati per tempo, saranno dolorosamente imposti dalla realtà. Del resto, probabilmente che l’Europa sarebbe già esplosa, con i suoi Paesi schizzati in tutte le direzioni possibili alla ricerca di un rimedio all’imminente disastro, se ci fossimo trovati in assenza della pur indecisa e debole presenza dell’Unione europea, che ha di fatto impedito colpi di testa, ha frenato uscite di fatto dal mondo occidentale, ha dissuaso da più forti e decise intrusioni e turbative da parte di potenze esterne da sempre interessate a creare cause di squilibrio e di scontro in Europa – penso ai Balcani ed a tutto l’Est europeo, ma anche alla Penisola iberica con le sue tradizioni anarchiche, e i focolai avrebbero potuto essere stati attivati dovunque il pericolo di default è più prossimo.

Ieri scrivevo che il compito di questo governo è “quasi impossibile”: diventerà presto impossibile se la maggioranza non procederà unita, e consapevole della necessità di riforme che, oltre ad essere volte alla efficienza, ottengano anche un oggettivo, consistente risparmio; e se le opposizioni – sindacati compresi – non si renderanno conto in tempo utile di essere uscite dal “paradiso” del XX secolo, durante il quale la loro cultura e le loro aspettative avevano preso corpo.

Queste paiono, senza per nulla voler fare il pessimista, le prospettive a un non-economista come chi scrive. Il quale, proprio perché non-economista, tracciata una prospettiva il cui indirizzo finale è assai duro per tutti noi, non dimentica che l’economia formula spesso modelli a-storici, modelli cioè che prescindono da quei balzi, fortissimi e imprevisti nelle estrapolazioni matematiche, che scandiscono di quando in quando la vita degli uomini. E qui dunque dovremmo porci altri interrogativi, la cui risposta potrebbe essere determinante: fino a quando il modello cinese, tanto squilibrato verso la crescita senza welfare, reggerà e potrà essere imposto ad una massa immensa e probabilmente sempre più consapevole? Fino a quando gli eredi dell’impero sovietico potranno basare la loro sopravvivenza sulla base di una economia estrattiva da terzo mondo? Fino a quando l’universo musulmano continuerà a guardare al mondo come territorio di conquista religiosa, innestando il proprio fondamentalismo sui nazionalismi e sulle frustrazioni dei suoi adepti?

Fonte: Il Legno Storto, 8 maggio 2010

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