
La scomparsa della clausola sociale nel mercato globale – Il lavoro forzato
I poveri condannati al lavoro forzato sono artefici di una produzione sottocosto che crea concorrenza sleale nei confronti di altri paesi, soprattutto dell’Italia per affinità produttive, con la conseguenza di far chiudere industrie virtuose, che hanno il torto di avere un maggior costo alla produzione a causa del rispetto sociale dei loro operai.
Avemmo fretta, vent’anni fa, di far cadere tutti i muri del mondo, sospinti dall’adrenalina che può innescare solo la notizia della fine di una guerra, anche se fredda. Credemmo, conservatori e laburisti, che mercato e consumo ci avrebbero liberato da miserie, conflitti, ed altri pericoli per l’ordine costituito, costituito da noi.
Decidemmo quindi di sottoscrivere gli accordi per il libero commercio, e così l’Uruguay Round, poi gli accordi di Marrakesh, e la nascita, nel 1995, del WTO (World Trade Organization) che aveva si recepito gli accordi del vecchio GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) del 1947, ma assumendo stavolta la dignità di organizzazione internazionale.
Firmammo anche noi paesi industrializzati, ma, sostenemmo, solo ad una condizione: l’introduzione della clausola sociale nel commercio.
La clausola sociale fece così il suo ingresso trionfale nei nostri discorsi; uno strumento che obbligava i paesi che avevano sottoscritto il trattato a rispettare le tutele minime dei lavoratori, pena le restrizioni alle esportazioni negli altri paesi sottoscrittori, la libera circolazione delle merci sarebbe andata di pari passo con quella dei diritti.
Ugualmente la clausola ambientale avrebbe obbligato il paese produttore a rispettare gli standard minimi di salvaguardia dell’ambiente.
Ed indicammo anche quali fossero i diritti fondamentali, o diritti minimi, dei lavoratori; in primis il divieto dello sfruttamento del lavoro forzato e del lavoro infantile.
Peccato che, mentre UE ed USA pretendevano tutto questo, i trattati erano stati già da loro sottoscritti, e non è facile ottenere qualcosa dopo la conclusione di un accordo…
Ma nel 1996, al WTO di Singapore, Clinton si impuntò: gli Stati Uniti minacciarono di porre il veto all’intera dichiarazione se non si fosse parlato dei diritti dei lavoratori.
Fu battaglia, l’India guidò l’opposizione all’imposizione della clausola sociale, (i cinesi, si sa, aspettano seduti in riva al fiume… ). L’Inghilterra spezzò il fronte, appoggiando la sua ex colonia invece dell’UE (meno male che ora abbiamo un ministro degli esteri inglese…).
La tesi sostenuta era perlomeno bizzarra: “i paesi industrializzati hanno costruito il loro benessere sullo sfruttamento dei lavoratori, ora non possono farci la morale!”
Purtroppo tale tesi è utilizzata anche in sede ambientale: “non potete chiederci di non inquinare dal momento che VOI avete causato il buco nell’ozono!”
Come dire: “è legittimo invadere un paese sovrano dal momento che Giulio Cesare ha invaso la Francia!”
A quel punto, pur di uscire dall’impasse, anche gli USA accettarono un deludente compromesso; si rinnovò l’impegno per il rispetto delle norme fondamentali del lavoro, ma si delegò all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) la competenza a definire e far fronte a tali norme. Ma non avendo l’OIL alcun mezzo coercitivo, è stata così respinta la possibilità di sanzioni commerciali nei confronti dei paesi che violano i diritti dei lavoratori. Ma non solo, nella dichiarazione non vi era neanche una disposizione per formare almeno un gruppo di lavoro per seguire la questione in futuro.
Fu questo l’addio alla clausola sociale negli accordi commerciali, nel dicembre 1996.
Perché Bill accettò? Forse perché aveva altri impegni che lo attendevano alla scrivania? Scherziamo, gli USA accettarono perché sapevano che avrebbero legiferato unilateralmente; in meno di due anni ogni prodotto da lavoro forzato (1997) o minorile (1998) non sarebbe più entrato negli States, dando così, a noi europei, l’ennesima, sonora, Lezione di Civiltà.
Il fatto è che noi europei, in tema di diritti, riusciamo spesso ad essere non solo divisi, ma anche un po’ presuntuosi, prolissi e radicalchic, indiscriminatamente garantisti, deboli, ma soprattutto, sempre, masochisti.
Perché ci ostiniamo a giocare al calcio contro squadre che, oltre ai piedi, usano anche le mani per colpire il pallone? La metafora non è alta, ma implicito è l’esito: la squadra che usa anche le mani vincerà sempre contro quella che rispetta le antiche regole, per quanta classe e tradizione possa avere.
Ma vince slealmente. Lo sfruttamento degli esseri umani, degli schiavi del XXI secolo, non è infatti solo un problema etico, ma è anche economico. I poveri condannati al lavoro forzato infatti, oltre a versare il sangue della loro bestiale condizione, sono artefici di una produzione sottocosto che crea concorrenza sleale nei confronti di altri paesi, soprattutto dell’Italia per affinità produttive, con la conseguenza di far chiudere industrie virtuose, che hanno il torto di avere un maggior costo alla produzione a causa del rispetto sociale dei loro operai.
E’ da questa slealtà dobbiamo partire, non è solo per i diritti umani nei PVS che dobbiamo lottare, ma anche per i nostri. Anche per difendere, non dobbiamo vergognarci, i nostri privilegi, le nostre rendite, i nostri marchi, il valore dei nostri beni, la nostra cultura, il valore dei nostri valori, per non perdere tutto ciò che di socialmente buono abbiamo faticosamente costruito, un modello non perfetto, ma almeno formalmente teso verso la giustizia, la solidarietà e la pace.
Come possiamo far ritornare la clausola sociale nelle legislazioni? Impossibile applicarla bilateralmente con governi, quali ad esempio il cinese ed il birmano, che non solo non sono democratici, ma non riconoscono i diritti fondamentali. Impossibile tornare indietro sulla base di accordi già applicati, anche perché il valore dei diritti umani non è universalmente riconosciuto, non solo politicamente, ma anche, purtroppo, culturalmente.
Fortunatamente vi sono altre strade, e partono tutte da un assunto: i consumatori siamo noi europei, e noi decidiamo cosa si compra e cosa no. Non possiamo proibire l’ingresso di un prodotto ma possiamo informare il consumatore sulle condizioni sociali di produzione dell’articolo che acquista (social labelling), sarà lui a decidere se pagare 19 Euro il suo oggetto sporcato dal sangue di un monaco tibetano o dalle lacrime di un bambino. Non possiamo agire nei confronti degli stati sovrani, ma possiamo farlo contro le imprese che si approfittano delle condizioni inumane di produzione.
Quindi:
campagne di informazione allo scopo di colpire l’immagine dei prodotti fuorilegge e favorire i virtuosi;
tracciabilità dei prodotti, con la creazione di registri ufficiali tenuti dal Ministero Attività Produttive;
misure coercitive nei confronti delle imprese coinvolte o complici, con sanzioni economiche e chiusura commerciale, facendo leva anche sulla collaborazione delle imprese oneste operanti in loco.
I cinesi sono un popolo pragmatico, se gli europei non acquisteranno merci da lavoro forzato, semplicemente non le produrranno più, solo si domanderanno, stupiti, perché vogliamo pagare la bambola 10 Euro invece di 9.
Su iniziativa della Laogai Research Foundation Italia è allo studio una proposta di legge che metta al bando i prodotti da lavoro forzato, con sanzioni per le imprese italiane coinvolte direttamente od indirettamente (così come esiste un disegno di legge, fermo al senato, che riguarda l’istituzione di un registro per le imprese che non utilizzano il lavoro minorile).
Ne beneficeranno gli esseri umani, dal momento che gli schiavi non saranno più economicamente appetibili, se ne gioverà l’ambiente, visto che forse acquisteremo meno beni, ma di maggior qualità, e se ne avvantaggerà l’industria italiana ed europea, che avrà una concorrenza meno sleale.
Si possono vedere queste iniziative come intento protezionistico della nostra industria, vale a dire colpire il dumping sociale asiatico utilizzando l’arma del rispetto delle clausole sociali.
Oppure si possono giudicare come intese a frenare seriamente lo sfruttamento degli esseri umani nei PVS, utilizzando l’unica arma realmente coercitiva, e non violenta, della chiusura commerciale.
Ma in entrambi i casi si tratta di iniziative largamente positive, ed importanti, che possono modificare verso il meglio il futuro prossimo della globalizzazione, indirizzandola verso un consumo responsabile, teso alla qualità non solo dei prodotti ma anche della produzione, riportando al centro la qualità della nostra vita, come unico significativo obiettivo, una qualità globale.
Oliviero Bracci