Il silenzio sulle libertà fondamentali in Cina
Osservando la situazione dei diritti umani in Cina dopo il 1989 ad oggi si può azzardare a sostenere che quest’ultima si trova al giorno d’oggi in una fase di sviluppo senza precedenti. L’aprile dell’anno scorso, dopo le continue pressioni internazionali e la richiesta da parte delle Nazioni Unite nel 2002 alla maggior parte dei paesi in via di sviluppo di attuare una pianificazione anche all’interno dei diritti umani, la Cina ha pubblicato il suo primo Piano d’azione nazionale sui diritti umani. Se si sposta lo sguardo nella regione asiatica, unica regione mondiale a non avere ancora un documento comune condiviso sulle libertà fondamentali, anche in questo caso si può erroneamente sostenere che degli sviluppi verso una maggior tutela dei diritti umani sono avvenuti e sono tutt’ora in corso.
La testimonianza politica, se così posso definirla, si identifica nell’istituzione da parte dell’ ASEAN il 25 ottobre scorso, di una commissione intergovernativa sui diritti umani per proteggere i diritti delle persone che vivono nella regione del Sud-Est asiatico. La linea fra il sostenere che i diritti umani in Cina e nella regione dell’Asia Orientale, rappresentata peraltro dalla dialettica politica di Pechino, hanno raggiunto oggi uno sviluppo senza precedenti ed affermare che questi diritti sono di conseguenza ampiamente tutelati è davvero molto delicata. Quando si osserva la situazione cinese bisogna prima di tutto fare una distinzione fra politica e realtà, più precisamente fra retorica e prassi. Dal 1991, data dello scongelamento del concetto di diritti umani in Cina, Pechino ha emesso una serie di documenti nazionali e ha preso parte a molte dichiarazioni e convenzioni internazionali. Da un punto di vista meramente politico la Cina ha avuto trasformazioni positive che hanno permesso alla governance cinese di avere una posizione sempre più ben vista agli occhi delle potenze occidentali.
Queste trasformazioni hanno effettivamente un riscontro politico e di conseguenza anche retorico. Ad esempio il 2004 è stato un anno simbolico per il concetto di diritti umani in Cina per due importanti pubblicazioni. La prima è stata la revisione costituzionale che ha visto l’inserimento del secondo capitolo sulla tutela delle libertà fondamentali in Cina. La seconda è stata la stesura del Libro Bianco sui diritti umani all’interno del quale il Patito Comunista Cinese ha raccontato l’evoluzione e lo sviluppo del benessere del popolo cinese prima e la continua dinamicità positiva del governo cinese per la garanzia dei diritti umani poi. Nel 2005 è stato pubblicato un altro Libro Bianco sulla democrazia all’interno del quale si può leggere un punto, precisamente il settimo, dedicato alla situazione delle libertà fondamentali attraverso il quale il Partito ancora una volta elogia l’azione politica del governo volta a migliorare la situazione dei diritti umani in Cina ed i progressi raggiunti.
L’elenco dei documenti politici cinesi sui diritti umani è ancora lungo, non è mio interesse però ripetere i già conosciuti step politici che il grande paese orientale ha fatto e sta facendo. Quello che mi interessa è far emergere la vasta e continua contraddizione che sussiste fra retorica e prassi. Il problema principale è che i diritti umani non hanno un rispettivo sviluppo nella realtà, ma inversamente molte volte sembra esserci una regressione piuttosto che un’evoluzione. Non è ancora possibile ad esempio dare una stima sul numero di campi di lavoro presenti sul territorio cinese, la pianificazione famigliare è ancora attuata per favorire la buona condotta del governo comunista, c’è sempre un controllo severo sulla educazione religiosa, le esecuzioni capitali sono tutt’oggi segreto di stato. O ancora le persecuzioni verso le minoranze etniche limitano sempre più il diritto di autodeterminazione delle due principali popolazioni, quella tibetana e quella degli Uiguri, non molto tempo fa, il 9 novembre 2009, sono stati giustiziati nove Uiguri dei molti condannati a morte.
Dall’ultima stima (31 luglio 2010) pubblicata sul quotidiano “ La Repubblica” la Cina ha ancora una volta ottenuto il primato sul numero delle esecuzioni capitali annuali. L’azione politica gestisce il linguaggio dei diritti umani in Cina, così come molti altre sue azioni. Questi diritti sono confinati in un’area prettamente politica e non hanno una giusta forma al di fuori della stessa. Più che parlare di sviluppo dei diritti umani in Cina parlerei del silenzio messo in atto tramite azioni e documenti politici da parte del governo di Pechino. Un silenzio giustificato dalle continue volontà fittizie di autorità e membri del partito atte a migliorare la garanzia di questi diritti da una parte, e attraverso l’assunzione di una posizione relativa in nome di determinati principi propri della cultura e della società cinese dall’altra. Quello che mi interessa sottolineare è che attraverso delle azioni meramente retoriche le autorità cinesi disegnano un’immagine di sé giusta e in linea con dei principi così detti internazionali e che, come molti sanno, non sono solamente principi politici ma prima di tutto etici.
L’immagine che il gigante asiatico vuole dare di sé al mondo si può assoggettare proprio a quel silenzio sui diritti umani che il mondo non vuole e predica di combattere. Un silenzio costruito con parole, azioni e trasformazioni totalmente politiche per nascondere la caotica realtà ingiusta della società cinese che proprio quelle autorità potrebbero migliorare attraverso una qualsiasi azione. Né è un esempio il Piano d’azione che all’inizio ho menzionato. E’ stato istituito e proclamato dall’Ufficio di Informazione del Consiglio di Stato elogiandone le peculiarità identificate nel velo di pragmatismo che caratterizza ogni singolo obbiettivo a breve termine riportato al suo interno. Basta una letta veloce e superficiale di alcuni documenti per comprendere l’inefficacia di tale documento. Per fare un esempio nella prima metà del 2010 la persecuzione nei confronti degli avvocati che si occupano della difesa dei diritti umani non ha avuto tregua. O ancora, lo stesso rapporto americano sui diritti umani ha condannato un peggioramento generale nella tutela di questi ultimi a due stati, uno dei quali è stata la Cina. Anche l’alone di trasparenza gestionale e politica nella stesura del testo stesso è stata molto debole. Attraverso un’intervista pubblicata sul sito humanrights.cn, il direttore dell’Ufficio d’Informazione di Stato Chen Wang, ha valorizzato l’impegno del governo per aver accolto in una riunione congiunta atta a rintracciare i bisogni imminenti da inserire in questo documento.
Oltre 80 unità governative e non solo erano presenti a tale incontro. Il problema però è che circa una cinquantina erano uffici e dipartimenti del governo ed i restanti si potevano identificare in associazioni, organizzazioni e rappresentanti di attivisti sempre e comunque iscritti all’interno del “grande libro dell’anagrafe politica e sociale” del governo cinese. Il problema è che proprio questa novità è stata guarda caso proclamata pochi mesi dopo la diffusione della nota “Carta 08” attraverso la quale un grande numero di cinesi sia in Cina che all’estero ha chiesto una maggior tutela dei diritti umani (e non solo), riuscendo a rompere la fittissima rete della censura presente su tutto il territorio cinese. Dei documenti governativi che coprono voci e testimonianza scomode, dei documenti politici che Pechino utilizza per disegnare la sua “giusta” azione per manipolare la coscienza di chi osserva il suo sviluppo solamente da una prospettiva che parte e si ferma dall’alto.
Un documento, la “Carta 08”, che ha visto l’arresto di uno dei coautori nonché attivista dei diritti umani in Cina, Liu Xiaobo. Nemmeno la risoluzione della carta del parlamento europeo del 21 gennaio 2010 sulle violazione dei diritti umani in Cina con particolare riferimento all’arresto di Liu non è servita a smuovere voci e sollecitazioni verso la politica di Pechino, se non all’interno del pubblico che segue con attenzione i passi ambigui di Pechino, un pubblico oggi circoscritto ad un numero piccolissimo. Pechino insegna al popolo cinese un concetto di diritti umani marxista dichiarando di avere una concezione socialista con caratteristiche cinesi quando in realtà il paese stesso si può oggi identificare meglio come una società capitalista più che socialista. Anche qui vige un’enorme contraddizione. Pechino critica fortemente la visione capitalista sui diritti umani, basta pensare che fino al 1991 il concetto stesso era etichettato come “il brevetto della borghesia”. Osservando la Repubblica Popolare Cinese oggi si vede invece quanto essa si appoggi su basi economiche di stampo capitalista e quanto le sue azioni siano mosse solo e solamente da un unico motto che si può a mio avviso identificare nelle tre parole “business is business”.
Azioni mosse secondo la regola del produrre di tutto riducendo ai minimi termini qualsiasi principio etico. Un business che porta ad una deregolamentazione totale nella quale noi per primi non riusciamo a vedere privandoci di quelle lenti costruiteci appositamente da chi minimizza l’etica per profitto, da chi ha il monopolio dei campi di lavoro, delle zone off-shore e delle imprese che vendono il prodotto di un lavoro privo di etica e colmo di sfruttamento.
Le direttive di Pechino si stanno focalizzando ben oltre i confini nazionali. Molti esempi si potrebbero fare a riguardo, ma uno in particolare è di interesse primario e attuale. La strategia cinese da dieci anni a questa parte si sta quotidianamente muovendo all’interno della delicatissima cornice geopolitica dell’ Asia meridionale e orientale. Una strategia meglio conosciuta come “il filo di perle”. Un nome in codice dal suono armonioso ma che nasconde un vero e proprio imperialismo economico e politico che Pechino sta tutt’ora perseguendo. Dal Mar Rosso fino all’Indocina aziende cinesi stanno costruendo infrastrutture in collaborazione con partner di paesi interessati dipendentemente dalla zona soggetta all’interesse cinese.
Una miriade di investimenti che da un lato coinvolge un numero elevato di aziende di diverse nazionalità e dall’altro vede protagoniste aziende di nazionalità solamente cinese. Una strategia che assicura al grande stato orientale una sicurezza militare, energetica, economica e politica a dir poco unica. Un filo che in modo agile unisce direttamente uno stato dopo l’altro fino al territorio della Repubblica Popolare Cinese, sia per mare che per terra. Molti hanno definito il filo di perle una mera “struttura analitica priva di carattere neo-coloniale e imperiale che, in modo pacifico, proietta la nostra visione su come saranno gestite le forze soprattutto nell’Oceano indiano”. Dall’altra però mi sembra d’obbligo evidenziare che questa strategia è nata verso gli anni novanta in seguito alla corsa cinese per accaparrarsi le risorse energetiche a lungo termine e che nel giro di una decina di anni è diventato un pericolo politico ed economico per il suo significato ancor oggi interpretato in chiave militare piuttosto che meramente economica. E’ noto quanto l’Africa si identifichi sempre più in un continente dove i mercati sono di mille opportunità piuttosto che nel paese immerso nel circolo vizioso “prestito-aiuto-debito”. Questa definizione sembra oggi aver stancato molti occhi e molti studi.
Mille opportunità dai caratteri africani che Pechino ha iniziato ad esplorare negli anni sessanta. Una vera e propria cooperazione “sud-sud” che ha preso via via forme e dimensioni sempre più ambiziose. Che ha permesso alla Cina di cambiare molte dinamiche all’interno del continente nero e di rimescolare tutte le carte, ponendo il carismatico sorriso operoso della leadership Pechinese come uno delle immagini vincenti dentro la dinamica geoeconomica del continente africano. Non vorrei allontanarmi dal soggetto di questo mio lavoro, dunque non dedico in questa sede tutta la mia attenzione verso gli innumerevoli passi che la Cina ha fatto per arrivare ad essere la protagonista in Africa. Vorrei comunque sottolineare alcuni punti per comprendere quanto le decisioni del paese orientale siano sempre decisioni animate da quel motto dell’ “arricchirsi senza regole” tanto amico al linguaggio politico cinese. Prima però faccio una premessa sintetica dicendo che quanto detto e quanto dirò è e sarà esclusivamente focalizzato sui rapporti sino-africani e non ha come obiettivo il criticare questi rapporti come gli unici “sbagliati” e nemmeno quello di focalizzare l’attenzione sulle contraddizioni che hanno animato e tutt’ora animano anche le relazioni afro-occidentali, passate e presenti. Il punto di partenza della regata degli interessi economici dai caratteri cinesi su territorio africano si identifica nel così chiamato “Treno della libertà”. Milleottocento kilometri di linea ferroviaria che percorre la costa della Tanzania finanziata da denaro tutto orientale: 500 milioni di dollari, da restituire entro 30 anni, privi di interessi, esenti da vincoli politici scomodi, ma colmi di accordi vantaggiosi per entrambe le parti. Accordi politici e diplomatici in cambio di prestiti e protezioni, come ad esempio può essere stato il supporto dato “dagli amici africani” ai “compagni cinesi” sulla scena internazionale quando nel 1972 proprio grazie ai voti di quei nuovi amici, Pechino ha vinto la sua volontà di cacciare la presenza dell’isola di Taiwan dal tavolo delle Nazioni Unite. Ecco che quel treno della libertà, nel lontano 1975, assieme all’inaugurazione dei binari che ospitavano il suo cammino, ha anche inaugurato la relazione politicamente pacifica ed economicamente strategica fra il gigante asiatico e il continente nero.
Sebbene essa affonda le sue radici nel secondo dopo guerra, quei kilometri di ferro e locomotive marchiati China, sono stati un primo passo importante nella storia delle relazioni fra le due parti. Queste, tenendosi a braccetto, hanno iniziato a salutare il “Nord” del mondo, lo stesso che all’epoca aveva vietato il finanziamento della ferrovia a causa dell’obiettivo meramente politico con il quale era stata promossa e per la situazione problematica in cui il paese versava. Gli anni hanno portato le due parti ad essere sempre più strette da un rapporto di amicizia basata sul mutuo interesse che ha aiutato senza dubbio alla rottura di quel filo che da molto unisce l’Africa all’Occidente. Un’amicizia fra i due continenti che ha contribuito alla quasi indipendenza dell’Africa dai padri coloniali che abitano al piano di sopra, ma allo stesso tempo l’ha portata a tessere una sorta di rapporto “madre-figlio” con i partner che vivono accanto. Anche l’istituzione internazionale per eccellenza, la Banca Mondiale, è stata soppiantata dalla EXIM Bank, una banca cinese che si è aggiudicata il podio nella classifica dei creditori stranieri in Africa.
Attraverso l’istituzione del Forum di Cooperazione Cina-Africa (FOCAC) nel 2000, si ufficializzò al mondo intero, in modo formale e altrettanto palese, l’unione fra il paese ed il continente. Parlando di diritti umani, fra i vari e diversi punti messi per iscritto in questa occasione, è fondamentale sottolinearne soprattutto uno, il quarto. Un “bullet point” che anche sulla carta da forma alla politica di non interferenza. Una strategia politica che permette una visione relativa dei diritti umani, secondo la quale l’approccio alle libertà fondamentali deve essere interpretato a seconda delle condizioni nazionali di ogni paese. Una spiegazione molto brutale e banale quella che ho appena dato, ma che sintetizza in modo molto chiaro la base ideologica sulla quale prendono forma e vengono permessi la maggior parte degli accordi economici fra i due “alleati”. Sempre in accordo con questa visione, che ripeto e sottolineo, mette in totale crisi l’universale portata dei diritti umani, ogni pressione proveniente dall’esterno può essere tendenzialmente considerata una limitazione delle stesse libertà fondamentali. Da un’ottica prettamente relativa può sembrare una volontà di adeguare in modo trasparente e pacifico gli standard universali di tali diritti ad una dimensione specifica. In realtà è una delicata e ben meditata spiegazione che la Cina stessa promuove per nascondere accordi che agli occhi del mondo non potrebbero altrimenti essere permessi.
Governi dittatoriali sanzionati dalle Nazioni Unite hanno stretto una rete di rapporti economici ormai indelebile con Pechino, l’ammontare del capitale prestato dall’oriente molto spesso non ha nessun vincolo circa il suo utilizzo, l’agire secondo la non interferenza assicura fino al 70% degli appalti a ditte cinesi, ditte che sono il risultato di investimenti privati sostenuti dall’intervento dello stato. Anche il traffico d’armi non è estraneo alla politica economica cinese messa in atto sotto il Mediterraneo, come non lo è nemmeno il supporto a guerre civili per avere un accesso più sicuro alle risorse, per salvare pozzi petroliferi e lavoratori dipendenti cinesi, proprio come è successo in Sudan con il caso Darfur. Al giorno d’oggi il 30% del petrolio usato in Cina proviene dall’Africa, nel 2008 le importazioni di materie prime hanno raggiunto un valore di 56 miliardi di dollari e parallelamente Pechino è riuscito a mantenere l’ago della bilancia “Import-Export” quasi in pareggio, grazie ai 51 miliardi di dollari di esportazioni nei paesi africani. Dati ufficiali pubblicati dalla rivista “il Sole 24 ore” ci dicono ancora che gli investimenti cinesi in Africa hanno ormai raggiungo i 20 miliardi di dollari e che nel 2000, anno della fondazione del FOCAC, l’ammontare degli investimenti raggiungeva un numero di 8 miliardi di dollari. In questi otto anni la Cina è riuscita a decuplicare l’interscambio con le nazioni africane, da 10 miliardi di dollari nel 2000, sono arrivati a interessi che hanno mosso fino a 107 miliardi di dollari nel 2008. I dati parlano da soli, esprimono in cifre simboliche l’aumento esponenziale della penetrazione cinese in Africa. La politica madre di non-interferenza si unisce alla politica-economica cieca a tutto il resto, ma mai al profitto, permettendo a più paesi di continuare un cammino di interesse reciproco che non perdona violazioni etiche verso altre nazioni, persone e “nature”.
Dove tutto è permesso purchè i ricavi beneficiano gli interessi di chi investe la somma più grande (lo stato cinese), dove la coscienza sembra non aver altro scopo al di fuori di quel pezzo di carta Dollaro che è diventato mente, ragione e cuore; ambizione, meta e podio del corpo cinese. Oggi la Cina non è soltanto l’alternativa africana all’Occidente, ma la sua sicurezza economica, il suo partner. La strategia politica dalle origini maoiste fa si che la maggior parte degli stati africani riconoscano una ed una sola Cina e dunque anche i rapporti economici e politici devono instaurarsi con quella e solo con quella Cina, la Repubblica Popolare Cinese di Pechino. Nel 2007 è nato anche il primo centro universitario di studi africani nella provincia centro orientale dello Zhejiang con l’obiettivo di studiare nuove politiche, nuovi orizzonti economici africani e di formare nuove leve che riescano a portare avanti il cammino ambizioso della loro patria. L’Africa sembra non dipendere più dal supporto delle relazioni spesso difficili, lente ed incomprensibili, che aveva instaurato con l’occidente, soprattutto perché l’economia del gigante asiatico nel continente è ormai diversificata, non ha come unico obiettivo soltanto quello energetico e quello delle materie prime . Cito il titolo, a mio avviso molto simbolico, di un articolo pubblicato sul “Sunday Monitor” e che dice:“Can Uganda emulate China? Of course we can” (“Può l’Uganda sforzarsi di eguagliare la Cina? Certamente che può”).
Una frase che basta per capire dove è direzionata la punta della freccia africana e che fa riflettere. Una frase che racchiude un altro significato che allontanandosi senza mai separarsi dallo slogan “business”, sta muovendo menti e genti verso il cercare una via migliore nella Cina, con l’inconsapevolezza forse, di aver sbagliato direzione. In parole molto chiare il continente africano non ha più bisogno di “Noi”, ma è il primo a dire che la sua fortuna è stata quella di allontanarsi dal blocco settentrionale del mondo per congiungersi a quello meridionale, via via collegato da quel “filo di perle”. Chiunque voglia diventare partecipe in questo gioco di relazioni “sud-sud”, il gioco con poche complicazioni burocratiche e meno vincoli politici, chiunque “voglia lavorare assieme alla Cina per l’Africa”, ha detto il commissario all’economia dell’Unione africana Maxwell Mkwezalamba, è e sarà il benvenuto. Dopo questa breve ma significativa parentesi africana, faccio un passo indietro e ritorno all’emblematica relazione che sussiste fra retorica e prassi all’interno dei documenti giuridici cinesi.
Si possono incontrare contraddizioni anche leggendo ad esempio il testo costituzionale in relazione con gli obblighi che riporta sempre al suo interno, sia nel capitolo primo dei principi generali, sia nel capitolo stesso delle libertà fondamentali. Cito un breve esempio per far comprendere l’entità dell’ambiguità costituzionale cinese. L’articolo 49 tutela la famiglia, i figli e la moglie, ma allo stesso tempo limita il diritto naturale per eccellenza, quello di poter procreare senza limiti ne obblighi. A tal proposito è noto a tutti noi che la Cina attua la pianificazione famigliare attraverso la politica del figlio unico. Il pensiero diffuso è quello secondo il quale Pechino attua una simile politica per alleviare il numero demografico troppo alto e di conseguenza per alleggerire il “mal sviluppo” della popolazione. Mi duole dirlo ma tale pensiero è dettato unicamente dalla non conoscenza o meglio dalla non coscienza. Le conseguenze tragiche di una politica così ingiusta cadono unicamente sulle vite della popolazione cinese costretta ad abbandonare un numero sempre più elevato di appena nati o in molti casi anche a togliere la vita, a uccidere un nasciturno perché disabile o addirittura di sesso femminile. Nei primi sette mesi del 2010 sono stati più di duemila i condannati per traffico di umani in Cina. Un traffico che è principalmente causato dall’impossibilità di riproduzione imposta.
I bambini vengono letteralmente rubati dalle famiglie in città e venduti ai contadini colpiti dalla politica del figlio unico. I bambini diventano vera e propria merce umana e come schiavi vengono usati come forza lavoro nelle campagne. Questi sono dati resi ufficialmente pubblici dalla stampa di Pechino. Le contraddizioni si possono trovare anche leggendo la stessa costituzione in rapporto con i documenti che regolano nello specifico altre attività o libertà come ad esempio il diritto alla libertà religiosa. E’ già noto che in Cina il cattolicesimo è diffuso e che le religioni permesse (e già qui si capisce che un limite ad una libertà fondamentale è in atto) sono anch’esse possibili e raggiungibili per i cittadini della Repubblica Popolare. Di contro però c’è una lacuna di coscienza circa le persecuzioni verso i cattolici e per chi promuove il cattolicesimo. Vere e proprie persecuzioni che portano alla morte attraverso pesanti torture persone che si sono permesse di promuovere la religione cattolica, come ad esempio è successo e succede tutt’ora ad alcuni vescovi. E’ risaputo che la situazione dei cattolici in Cina non è affatto semplice, ma non è abbastanza risaputo che l’obbiettivo dei vertici di Pechino è quello di raggiungere una completa autonomia nell’educazione della dottrina cattolica. Questo, a mio avviso, si identifica nel desiderio di ottenere una totale indipendenza dallo Stato del Vaticano, in qualsiasi passo, verso un’educazione cattolica.
Quello che comanda la dialettica governativa di Pechino sono delle scelte prettamente economiche e in nome di queste il governo ed il Partito insegnano al mondo occidentale i passi impegnati a migliorare la situazione dei diritti umani in Cina, favorendo unicamente la divulgazione di notizie positive e nascondendo sempre e comunque la realtà ingiusta entro la quale più di un miliardo di persone è costretta a vivere. Scelte economiche animate soprattutto da noi, dico noi intendendo l’occidente e più specificamente il nord del mondo. Una divinizzazione del denaro all’ennesima potenza che permette a Pechino di continuare a dimostrare in un modo innocente ma pieno di suggestione il suo impegno politico nel miglioramento dei diritti umani. Nello stesso tempo permette il silenzio sulla realtà effettiva all’interno dei confini nazionali cinesi. Un silenzio che lascia la coscienza di ognuno di noi inconsapevole circa le continue e violente repressioni, un silenzio che non ci permette di poter guardare senza le lenti del partito comunista la realtà dei diritti umani in Cina, un silenzio questo che ci vieta di leggere informazioni anche sui nostri quotidiani, così come su altri importanti quotidiani e mezzi d’informazione occidentali.
Le esecuzioni capitali sono ancora un segreto di stato, il traffico d’organi in Cina si stima che alimenti più del 90% del traffico nazionale, le persecuzioni religiose frutto di una volontà dello stato di ottenere il vero e proprio monopolio della fede e dell’educazione di ogni cittadino cinese, la politica del figlio unico e le sue tragiche conseguenze -dall’aborto forzato alla morte di molti neonati all’abbandono di tanti altri-, il lavoro forzato che arricchisce unicamente lo stato e il mercato capitalista internazionale, i diritti dei detenuti spesso e volentieri negati, potrei dilungarmi e continuare con un elenco smisurato. Sono queste le informazioni che devono arricchire la coscienza di ognuno di noi. E’ attraverso questa conoscenza che possiamo a mio avviso aiutare il popolo cinese. Il mondo occidentale deve iniziare a guardare la Cina togliendosi quelle lenti costruite dalla dialettica del Partito Comunista Cinese e nello stesso tempo cercando di cogliere la divinizzazione del denaro che guida ogni azione cinese e che permette la ghettizzazione di violazioni delle libertà fondamentali sia politiche civili, ma anche sociali, economiche e culturali di un intero popolo.
Francesca Bottari
Fonte: Redazione, 1 ottobre 2010
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