La Cina, motore dell’economia mondiale?
Quest’anno la Cina celebra l’anno del coniglio che, secondo le previsioni, dovrebbe portare stabilità rispetto ai problemi dell’anno precedente, della tigre. Nel 2010 la crescita del PIL è stata del 10,3% però l’inflazione rimane alta, al 4,6%, ed i problemi economici e sociali aumentano. I prezzi al consumo galoppano: e per la prima volta la vita a Pechino costa di più di quella a Hong Kong. Per esempio una ciotola di spaghetti di riso con manzo, che ad Hong Kong oscilla fra i 30 e i 35 dollari locali (3-3,5 Euro), a Pechino si paga circa 41 dollari di HK (4.10 Euro). Il mercato interno del Paese si restringe mentre il divario fra ricchi e poveri si allarga. Solo circa il 20% della popolazione ha pensione ed assicurazione medica adeguate e solo le scuole elementari sono gratuite, il resto dell’istruzione è a pagamento. Quindi la stragrande maggioranza del popolo non spende e risparmia solo quello che può dei già magri salari, mantenuti artificialmente bassi. Lo yuan resta sottovalutato per poter mantenere i prodotti cinesi competitivi nell’export. Gli investitori sperano in un cambiamento di rotta che rivaluti la moneta cinese per frenare l’inflazione, ma Ma Zhou Xiaochuan, governatore della Banca Centrale, ribadisce la ferma intenzione del governo di tenerlo stabile, cioè sottovalutato. Nel frattempo le proteste sociali continuano. Secondo fonti del regime ogni anno vi sono circa 80.000 casi di rivolte popolari contro la corruzione, la politica del figlio unico o a causa dell’esproprio di terre e proprietà. Molti si chiedono come mai vi è malessere sociale in Cina visto che il paese è una grande nazione produttrice? La ragione è che la politica economica del Regime cinese arricchisce una minoranza legata al Partito Comunista mediante le esportazioni a basso costo, invece di creare una classe media in grado di godere dei benefici che una nazione produttrice può offrire. Ed è perciò che, durante un’intervista al Parlamento Italiano nel 2007, Lu Decheng, dissidente cinese detenuto 9 anni nei Laogai, ha ricordato un proverbio “La Cina è ricca ma il popolo è povero”. Per chi non lo sapesse: i Laogai sono i più di mille campi lavoro forzato cinesi dove da tre a cinque milioni di persone sono costrette a lavorare fino a 16-18 ore al giorno a vantaggio economico del regime e di numerose multinazionali che investono o producono in Cina, si veda www.laogai.it. I grandi media, i politici e gli “esperti economici” alimentano ammirazione per la Cina, “la fabbrica del mondo”, ed il suo PIL in crescita, ma dimenticano di informarci che la sua capacità produttiva non è indirizzata al mercato interno. Un Pil che sale non significa che un Paese sia prospero se la ricchezza di quel Paese è a disposizione di una piccola minoranza. Se a guadagnare questo denaro fossero anche le classi inferiori, o quelle medie, lo spenderebbero nel mercato interno, incrementando i consumi nella vita di tutti i giorni. La burocrazia di Partito usa il lavoro a basso costo e i mercati ad alto reddito dell’Occidente per garantirsi enormi profitti. E poi, questi stessi uomini d’affari e dirigenti cinesi corrotti non credono che il proprio denaro in Cina sia al sicuro. Pertanto convertono i propri yuan in valuta estera, e questo rende le riserve cinesi di valuta straniera le maggiori del mondo, mentre la moneta interna torna sul mercato oppure usano il denaro per comprare beni immobili per preservare il valore d’acquisto, e anche questo fa tornare la moneta interna sul mercato, contribuendo a far crescere l’inflazione. La tanto decantata “competitività cinese” deriva dallo sfruttamento della manodopera che è costretta al lavoro forzato nei campi Laogai o viene pagata con salari di fame nelle imprese-lager, come la Foxconn, dove vi sono spesso casi di suicidio. I nostri esperti e le agenzie di rating dimenticano anche di informarci che una delle cause principali della crisi economica occidentale è stato proprio l’atteggiamento tollerante dei nostri governi che hanno permesso l’invasione di prodotti cinesi sui mercati occidentali. Tale posizione ha causato delocalizzazioni, bancarotta di imprese, indebitamenti dei governi, cassa integrazione e disoccupazione. Sono i presta tori d’opera, i salariati, le vere vittime dell’espansione economica cinese, in quanto la multinazionale compra a poco in Cina, rivende a prezzo decuplicato in occidente e licenzia i suoi vecchi dipendenti, ormai troppo costosi. Spesso i prodotti cinesi sono anche nocivi alla salute e vengono manufatti dal lavoro forzato e dal lavoro minorile; è chiaro, quindi, perché il Partito comunista cinese non permette una reale rivalutazione della moneta nè permette un libero scambio di mercato fra la Cina e le nazioni straniere. Mantenere l’enorme dislivello fra il mercato cinese e quello straniero è la politica fondamentale del regime per arricchirsi insieme ai grandi centri di potere finanziario mondiali. Non vengono facilmente consentite le importazioni e quindi il mercato interno e quello internazionale non si possono bilanciare. Le misure necessarie per uscire dalla crisi sono: ridurre la circolazione degli yuan, rivalutare la moneta cinese, stabilire una più giusta distribuzione della ricchezza aumentando gli stipendi, sostenendo il flusso dei beni esterni, espandendo il mercato interno con lo stesso ritmo con cui aumenta la crescita economica e quindi riducendo il divario fra i poveri e i ricchi. Tale trasformazione del modello economico cinese aiuterebbe anche le relazioni economiche sia interne che esterne. All’interno del paese aumenterebbero i guadagni e la capacità di spesa della classe lavoratrice e quindi diminuirebbe l’inflazione. La rivalutazione dello Yuan, invece, ridurrebbe il costo delle importazioni per i consumatori cinesi ed incoraggerebbe Pechino a cercare la crescita mediante il consumo interno. All’esterno, se le esportazioni verso le nazioni sviluppate diminuiranno ed aumenteranno le importazioni, si ridurrebbero sia il surplus commerciale che la disoccupazione in USA ed Europa, così come le frizioni internazionali legate all’economia. Questa politica se attuata, aiuterebbe le nazioni sviluppate a riprendere il tasso di crescita economica e quindi ad uscire dalla crisi. Concludendo, gli strumenti per uscire dall’incubo di questa recessione mondiale ci sono ma occorre, da una parte, la volontà politica occidentale di condizionare gli accordi politici e commerciali agli interessi dei popoli e, dall’altra, la disponibilità del Partito comunista cinese di cambiare il suo modello economico verso uno sviluppo sostenibile. Quest’ultima è ormai una necessità ineluttabile: l’inflazione galoppa, le rivolte popolari continuano e i problemi sociali aumentano; o cambia il sistema cinese o il regime comunista cadrà come 20 anni fa cadde il regime comunista sovietico.
Toni Brandi