
Cina, a Shenzhen un operaio vince la causa di lavoro
Dopo due anni di udienze rinviate senza un valido motivo, Xiong Mengwen ha finalmente vinto la sua grande battaglia. Contro la Longcheng, l’azienda di Shenzhen che lo ha fatto ammalare di pneumoconiosi, una malattia polmonare causata dall’inalazione di quantità eccessive di polvere; ma anche contro un sistema che non si è mai preoccupato dei diritti dei lavoratori, se non per accontentare (temporaneamente) le richieste degli alti funzionari del Partito interessati, il più delle volte, non tanto alla salute e al benessere della popolazione ma a zittire le critiche di un Occidente “mai stanco di denunciare i presunti abusi Orientali in materia di diritti umani“. La storia di Xiong Mengwen potrebbe essere quella di uno dei tanti lavoratori migranti che si sono spostati nelle regioni costiere per fare fortuna. Prima di trasferirsi a Shenzhen, nel Guangdong, per lavorare nell’impresa di demolizione che gli ha rovinato la vita, Xiong Mengwen era un onesto contadino dello Hunan che guadagnava, nei giorni più fortunati, fino a un massimo di dieci yuan. Dieci anni fa, quando nel suo villaggio si sparse la notizia che le aziende di Shenzhen pagavano i loro operai fino a 200 yuan al giorno (circa 20 euro), tanti contadini come lui decisero all’istante di trasferirsi. Per aiutare le rispettive famiglie a costruirsi un futuro migliore, all’insegna della salute, dell’istruzione e del benessere. Dopo aver passato anni in mezzo alla polvere dei cantieri da demolire, Xiong Mengwen e i suoi colleghi hanno pensato fosse normale ritrovarsi a tossire o ad avere difficoltà respiratorie più spesso del solito. Poi, quando due colleghi sono morti per un disturbo polmonare letale, gli operai della Longcheng hanno iniziato a temere che tutto quel tempo trascorso a contatto con il pulviscolo provocato dalle demolizioni senza indossare alcuna protezione li avesse fatti ammalare. Una conferma che sono riusciti ad avere solo dopo aver protstato per mesi contro gli ospedali del Guangdong che si rifiutavano di visitarli perché “non potevano diagnosticare una eventuale malattia contratta sul luogo di lavoro senza il permesso dell’azienda che li aveva assunti”. Un permesso che, naturalmente, nessuna azienda cinese avrebbe mai concesso. Se i colleghi di Xiong Mengwen hanno deciso alla fine di accettare di essere visitati negando a priori di essersi ammalati in fabbrica (assunti senza contratto, non potevano provare di avere un legame col la Longcheng), l’ex contadino dello Hunan non ha voluto farlo perché (casualmente) ancora in posesso di un permesso (scaduto) che l’azienda gli aveva preparato qualche anno dopo averlo ingaggiato. Un pezzo di carta apparentemente inutile che ha permesso a Xiong Mengwen di vincere la sua battaglia con pazienza e coraggio. Pazienza perché due anni di processi, insulti, prevaricazioni e minacce non sono stati facili da vivere. Coraggio perché l’eventualità di un “regolamento di conti” o di un arresto autorizzato da autorità troppo vicine agli industriali di Shenzhen è sempre stata tutt’altro che remota. Inutile tentare di descrivere la gioia, lo stupore e la soddisfazione provati quando, un paio di settimane fa, tanta perseveranza è stata premiata. E il Tribunale del Popolo di Shenzhen ha imposto alla Longcheng di pagare a Xiong Mengwen un risarcimento pari all’80% della somma di 86.488 yuan, circa 10.500 euro, precedentemente stabilita dalla Commissione di Arbitrato. Una cifra esorbitante per qualsiasi cinese. Che ha lasciato all’ex contadino dello Hunan la soddisfazione di vedersi riconosciuto un indennizzo in un paese in cui i diritti non contano (quasi) niente, ma anche l’amarezza di essere riuscito a mettere da parte la somma necessaria per aiutare i due figli a costruirsi un futuro migliore non lavorando, ma “grazie” a una malattia che, oggi, ha già raggiunto uno stadio troppo avanzato per essere curata.
Claudia Astarita
Fonte: Panorama.it, 4 gennaio 2012