Risposta di Piero Verni a Radio Radicale

Caro Carlo,
rispondo volentieri al tuo intervento (che come hai visto appena ricevuto ho immediatamente messo sul mio blog) relativo alla conversazione che ho avuto con Marco Pannella a Radio Radicale venerdì scorso.
Voglio dirti innanzitutto che mi ha un po’ stupito il tono, insolitamente concitato e a volte perfino “tranchant”, che hai usato nelle tue pur stimolanti considerazioni. Perché quelle due ore di confronto radiofonico ti hanno tanto irritato? In tutti gli anni in cui ho avuto il piacere di godere della tua amicizia non ricordo di averti mai sentito esprimere con una tale vis polemica che, a mio modesto avviso, ti ha portato in alcuni momenti del tuo scritto a dare una rappresentazione più grottesca che reale di quello che è stato detto.

Prima di entrare nel merito della mia risposta vorrei premettere che non capisco bene perchè hai voluto iniziare la tua analisi ricorrendo all’infelice metafora agonistica. Perché mai avremmo dovuto, il buon Pannella ed io, trovarci su di un ring pugilistico? Perché mai avremmo dovuto dar vita ad una gara con tanto di vincitore e vinto? Pannella, se lo riterrà opportuno, risponderà per la sua parte ma per quanto mi riguarda a tutto pensavo, nel corso di quella discussione, tranne che a stabilire chi avrebbe “vinto” e chi “perso”. Pensavo invece ad un civile confronto tra le idee del Partito Radicale e le mie che su molte questioni relative al Tibet sono notevolmente divergenti. Inoltre metti in evidenza che sono stato gentile. Grazie per averlo notato e scritto. Ma è una colpa? A me appare un merito. Soprattutto in questa “italietta” in cui si è abituati a interlocutori che si insultano, si interrompono di continuo, si urlano contro senza mai ascoltarsi. Grazie a dio (e anche un poco a me e Pannella) nulla di tutto questo è avvenuto venerdì scorso negli studi di Radio Radicale. Per centoventi minuti due persone hanno confrontato i propri punti di vista ed hanno cercato di spiegarsi.

Ho ricevuto numerosi feed back su quella conversazione ma, lo dico con autentico rammarico, solo nel tuo caso mi sono accorto di non essermi fatto capire. Quello che più mi spiace è che tu non ti sia reso conto che per tutto l’arco della trasmissione ho sempre detto che sarebbe un errore madornale rinunciare alla richiesta dell’indipendenza tibetana fin da oggi e non ho mai demandato questa richiesta a un eventuale cambiamento di potere in Cina. Tu, del tutto erroneamente, mi fai dire quello che non mi sono mai sognato di affermare. Caro Carlo perché scrivi: “A conclusione della ‘Conversazione straordinaria con Marco Pannella’, Piero Verni delinea una strategia politica. Prima si mettano dei ‘sassolini’ nell’ingranaggio della Repubblica popolare cinese e solo successivamente – a cambiamento avvenuto in Cina – si affronterà il problema dell’autonomia o dell’indipendenza tibetana.”? Al contrario ho detto, come del resto ripeto da anni come un disco incantato, che i tibetani dovrebbero smetterla di inseguire il sogno irrealistico di un accordo autonomistico con l’attuale dirigenza cinese e mettersi a dare la loro parte di picconate al Muro di Pechino. Senza mai abbandonare la richiesta di indipendenza. Era tanto chiara questa mia posizione che Pannella più volte ha ribadito il suo profondo dissenso sulla questione. Ho solo aggiunto, ma anche questo lo vado dicendo e scrivendo da anni, che solo con una nuova Cina non più autoritaria e governata dal regime a partito unico, i tibetani -ove lo volessero- potrebbero prendere in considerazione l’idea di una federazione che oltre a loro riguarderebbe anche uiguri, taiwanesi e mongoli. Mi sembra un po’ surreale che tu non ricordi che ho fatto notare a Pannella che non era per nulla vero che la richiesta di indipendenza venisse dai settori più poveri della società tibetana dell’esilio. Anzi. Dunque sono d’accordo con te quando citi le parole di Jamyang Norbu e ricordi cosa accade nei campi profughi del sud India ma ti rammento che non mi ero certo dimenticato di parlarne con Pannella.

Riguardo alle posizioni dei radicali sul Tibet. Francamente mi sembra una forzatura affermare, come fai, che la loro linea politica sia “filo-cinese”. E’ vero, premetti quelle due paroline “nei fatti” ma non mi sembra che il risultato cambi molto. Per altro quel “nei fatti” ricorda da vicino quel “oggettivamente” caro alla tradizione comunista che spesso, scherzosamente, nel corso delle nostre lunghe telefonate mi accusi di tirare troppo spesso in ballo. Io invece ritengo che il problema del Partito Radicale, non sia tanto quello di portare avanti una posizione “nei fatti filo-cinese”, ma di inserire tutti i temi internazionali che essi incontrano (e non solo quello tibetano) così profondamente all’interno dell’orizzonte delle loro battaglie politiche da perdere di vista differenze e specificità. Non c’è stato tempo per poterne parlare ma ad un certo punto della conversazione Pannella, per dirmi che i tibetani in Tibet erano molto più disponibili ad accettare una soluzione “autonomistica” di quanto io non pensassi, ha fatto riferimento alla battaglia per il divorzio in Italia e a come il PCI non avesse compreso quanto la società italiana fosse matura per quella riforma. Ecco un classico esempio di quello che sto dicendo. Vale a dire la difficoltà del PR e di molti suoi esponenti ad uscire dal “bozzolo” della loro politica per comprendere realtà che sono distanti (a volte sideralmente distanti) dai parametri (per non parlare degli stereotipi) a cui siamo abituati. Ma da qui a dire che si sia “nei fatti” filocinesi, mi sembra ce ne corra.

Caro Carlo, scrivi anche che io sono fermo al mio viaggio del 1987 per quanto riguarda il Tibet. Spiace dirlo ma ti sbagli di grosso. Non solo seguo quotidianamente quanto avviene sul Tetto del Mondo ma ho la fortuna di poter “disporre” di un osservatorio privilegiato relativamente al Paese delle Nevi. Vale a dire dei dettagliati resoconti di mia moglie (tibetana) Karma che in Tibet dal 2001 ad oggi ci è stata sei volte, tornando sempre con ore e ore di filmati e preziose informazioni frutto di centinaia di colloqui fatti “sul campo”. Quindi ribadisco che ancora oggi la grande maggioranza dei coloni cinesi che arrivano a Lhasa e nell’intero Tibet non hanno alcuna intenzione di installarvisi permanentemente. Odiano il posto, soffrono l’altitudine, si sentono (ferrovia o non ferrovia, karaoke o non karaoke, prostitue o non prostitue) in una sperduta periferia dell’Impero e detestano i tibetani. Sperano di fare il maggior numero di soldi possibile nel minor numero di anni possibile e poi tornarsene a casa. Che non pensano sia il Tibet. Certo che, e non solo dal 2000, l’idea di Pechino è quella di fare di Lhasa una metropoli socialista cinesizzata restringendo l’area tibetana a una manciata di metri quadrati intorno al Potala e al Jokang viste come mere attrazioni per il turismo, sia quello estero sia quello interno. Ma per realizzare questo progetto basta un certo numero di coloni stanziali e un enorme turn over di migranti. Non mi pare che ricordare questo dato equivalga a negare che la Cina sia in Tibet per rimanerci. E‘ un po‘ imbarazzante dovertelo ricordare Carlo, ma ho cominciato a scrivere articoli di denuncia della distruzione urbanistica di Lhasa nel 1987.

Sulle tue considerazioni relative a cosa vogliono i tibetani, sia in India sia in Tibet, sono ovviamente del tutto concorde così come su quanto siano astratte, nella dimensione concreta del dramma tibetano, le disquisizioni di Pannella sul “ius soli” e “ius sanguinis”. Anche queste, penso, notevolmente influenzate dalla politica radicale nei confronti delle leggi sull’immigrazione in Europa.

Per terminare due parole sul “che fare?” riguardo la società tibetana dell’esilio. Credo anch’io (quante volte, Carlo, l’ho scritto sul mio blog e ne abbiamo parlato tra noi?) che sia maturo il momento per dar vita ad uno schieramento in grado di rivendicare apertamente e senza ambiguità la richiesta del diritto all’autodeterminazione per il popolo tibetano e l’indipendenza per il Tibet. Per quanto mi riguarda concordo in pieno con quello che scrive Jamyang Norbu nel suo articolo “Waiting for Mangtso III”,
“L’unica richiesta è una dichiarazione in cui ci si riconosce nei tre obiettivi della Rangzen Alliance:

La restaurazione dell’indipendenza tibetana

Il ritorno di Sua Santità il Dalai Lama in Tibet come capo di stato di una nazione indipendente.

L’instaurazione di un sistema di governo pienamente democratico nella società tibetana dell’esilio e nel Tibet libero basato sul ruolo della legge e sul primato delle libertà individuali.

Ah, stavo per dimenticarmelo. Una ultimissima annotazione su Gandhi e l’India di oggi. E’ sempre azzardato (e in ultima analisi futile) dire cosa potrebbe pensare una persona se tornasse in vita. Però mi sembra un po’ imprudente ritenere che se il Mahatma riuscisse a vedere l’India di oggi ne sarebbe soddisfatto. Non devo certo ricordare a te Carlo, che la conosci meglio di me, le ferite che segnano il corpo dell’India contemporanea e che verosimilmente a Gandhi risulterebbero intollerabili. E non parlo di certo solo dei “problemi di traffico”. L’India ha raggiunto la completa indipendenza, questo è fuor di dubbio. Ma la direzione politica, economica, culturale, religiosa ed ambientale che ha preso in questi 60 anni, proprio non mi appare quella sognata (e cercata, al di là del purna swaraj) dal Mahatma. Però questa è un’altra storia.

Bene Carlo, adesso ho veramente terminato. Con l’affetto, la stima e l’amicizia di sempre,

Piero Verni, 4 maggio 2010

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