Scene di pulizia etnica nel Myanmar del Nobel San Suu Kyi

Chi può permetterselo compra un passaggio in barca, chi non può tenta la sorte via terra o magari guadando il fiume Naf, che per 35 chilometri divide il Myanmar, un inferno, dove si rischiano morte, torture e stupri, dal Bangladesh, un altro inferno, dove si sopravvive a stento in campi profughi.

Dall’inizio degli anni 90, sono già più di 400mila i musulmani rohingya scappati dallo Stato Rakhine, nel Nord-Est del Myanmar. Le loro condizioni di vita, in un Paese a maggioranza buddhista che li considera immigrati illegali, non sono cambiate dopo la capitolazione della giunta militare birmana e l’ascesa del Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi.

Anzi, violenze etniche rimaste sopite durante i decenni di dittatura sono esplose nel 2012 (con centinaia di morti e 140mila profughi), anche grazie ai militari, che hanno soffiato sulle loro braci per conservare una qualche forma di consenso nel nuovo Myanmar. Gli 1,1 milioni di musulmani rohingya del Rakhine vivono in condizioni di apartheid, senza cittadinanza né libertà di movimento nello Stato più povero del Myanmar. Per tantissimi di loro non c’ è alternativa che cercare scampo nel poverissimo Bangladesh: che non è in grado di gestire un simile esodo e ha deciso di chiudere le frontiere. Ma che dovrà fronteggiare l’arrivo di una nuova ondata di profughi, dopo l’escalaton delle violenze iniziata venerdì 25 agosto.

Armati di bastoni, coltelli e ordigni rudimentali, diversi gruppi di rohingya hanno attaccato 30 stazioni di polizia e una caserma dell’esercito birmane, in un assalto poi rivendicato dall’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa - Arakan è il nome della regione durante il periodo coloniale britannico). Il bilancio degli scontri è al momento di 104 morti tra gli insorti e 12 tra le forze di sicurezza, secondo il resoconto del Governo birmano, che ha dichiarato l’Arsa un’organizzazione terroristica. E che avrebbe aperto il fuoco sulla popolazione in fuga.

La rappresaglia ha costretto 3mila persone a cercare di oltrepassare il confine con il Bangladesh. Molti di loro vengono respinti alla frontiera e rispediti indietro, condannati ad accamparsi nella giungla, in campi improvvisati: quattro bastoni piantati nel terreno e un telo sospeso l’unico rifugio per intere famiglie.

È dal Bangladesh che arrivano i resoconti delle agenzie di stampa internazionali, dato che da tempo il Governo guidato da Suu Kyi, che sembra aver ereditato dalla Giunta l’allergia a ogni forma di critica, ha negato ai media l’accesso alla zona. Il 9 ottobre del 2016, un altro molto più limitato attacco rivendicato dall’Arsa contro tre caserme birmane, con l’uccisione di 9 agenti, aveva scatenato la rappresaglia generalizzata delle forze di sicurezza e delle milizie create armando la popolazione locale: uccisioni indiscriminate, esecuzioni di imam, torture, stupri di gruppo, detenzione di massa, saccheggi, distruzione di cibo, 1.500 abitazioni date alle fiamme, spesso con famiglie intere chiuse dentro. Da allora 66mila persone fuggite in Bangladesh, alle quali si aggiungono altri 22mila profughi interni (sono 120mila le quelli che vivono nei campi messi in piedi nel Rakhine). Abbastanza da spingere l’Alto commissariato Onu per i diritti umani (Ohchr) a parlare in un terrificante report del 2 febbraiodi «pulizia etnica», anche sulla base di immagini satellitari delle distruzioni, e a istituire una commissione d’inchiesta per far luce sulle violazioni di diritti umani, con decisione del 24 marzo. Ma i suoi tre membri non possono investigare “sul campo”: Suu Kyi si è detta contraria all’indagine e il suo vice-ministro degli Esteri, Kyaw Tin, ha dichiarato che non concederà ai membri della commissione i visti d’ingresso.

Il Myanmar ha condotto una propria indagine interna. A guidarla c’era l’ex generale e attuale vice-presidente Myint Swe. L’esercito birmano, il Tatmadaw creato dal padre di Suu Kyi, il generale-eroe dell’indipendenza birmana Aung San, ne è uscito assolto da ogni accusa. Oltre a questa commissione, su esplicita richiesta di Suu Kyi, ne è stata istituita un’altra, guidata dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. Che però aveva lo stretto mandato di indagare sulle radici storiche della conflittualità tra rohingya e popolazione locale (i 2 milioni di abitanti dell’etnia locale rakhine) e non sulle violazioni dei diritti umani. Riguardo alle quali, tuttavia, anche la commissione Annan invoca un’indagine indipendente nel report pubblicato il 24 agosto. Solo una manciata di Stati «paria», ricorda l’Ohchr, ha rifiutato l’accesso ai suoi ispettori: Siria, Corea del Nord, Eritrea e Burundi.

Lunedì 28 agosto, Suu Kyi, che non ha mai speso parole a sostegno dei rohingya, ha invece accusato i funzionari delle organizzazioni umanitarie, che ancora operano nella regione con le forti limitazioni imposte dalle autorità, di «aver partecipato al saccheggio di un villaggio da parte dei terroristi», attraverso un post sulla pagina Facebook del suo ufficio. Dichiarazioni che hanno spinto la missione Onu in Myanmar a ritirare parte del proprio personale.

Malgrado in molti in Myanmar considerino i rohyngia immigrati illegali arrivati dal Bangladesh, insediamenti musulmani nel Myanmar Nord-occidentale sono rintracciabili dal 15° secolo. L’origine dei rohingya, termine emerso solo negli anni 50 del Novecento, è però più complessa e risalirebbe alla seconda metà del 1800, quando l’impero britannico favorì una migrazione di massa dalle regioni dell’attuale Bangladesh nello Stato Arakan, sulla costa occidentale della Birmania, abitato da un’altra minoranza allora maltrattata, i buddhisti rakhine. La convivenza tra i due gruppi, complici gli errori del colonialismo e poi le vicende della seconda guerra mondiale e la successiva “ritirata” britannica, non è mai stata pacifica, con violenze da entrambe le parti che hanno stratificato pregiudizi e rancore.

La tragedia dei rohingya sta offuscando l’immagine di paladina dei diritti umani che Suu Kyi si era conquistata con la sua lotta non violenta contro la dittatura. Una battaglia ancora in corso: il Myanmar è al centro di una delicata transizione verso la democrazia: la Giunta militare ha sì ceduto il potere, almeno di facciata, ma si è garantita nella Costituzione ampi margini di autonomia e il controllo dell’Esercito e della Politica dei confini. Ed è ben allacciata nei gangli economici del Paese.

Quella dei rohingya è però ormai una crisi regionale. Campi profughi sono stati istituiti anche in Thailandia e Malesia, dove decine di migliaia di rifugiati sono finiti al centro di un traffico di esseri umani e schiavi. E all’inizio del mese, l’India ha annunciato la volontà di espellere migliaia di rohingya arrivati nelle zone di confine con il Bangladesh: sono 40mila in tutto e hanno già incontrato l’ostilità dichiarata dei gruppi radicali induisti. Per affrontare la questione, Papa Francesco ha messo in programma una visita in Myanmar, tra il 27 e il 30 novembre, e poi in Bangladesh, tra il 30 novembre e il 2 dicembre.

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2017

English article,Straits Times: Myanmar and militants trade Rakhine atrocity accusations

 

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