Shirin Ebadi: “I governi avevano dimenticato Liu Xiaobo in nome degli affari con Pechino”

L’iraniana, avvocato per i diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2003, accusa l’Occidente: “La sua voce soffocata nel silenzio. Ricordo bene che per Aung San Suu Kyi è stato fatto molto di più”

“IL mondo non ha dimostrato abbastanza sensibilità nei confronti di quest’uomo coraggioso e di questo premio Nobel per la Pace. Non lo hanno fatto i governi e non lo ha fatto il comitato del Nobel, forse perché la Cina è un Paese molto potente e gli interessi economici in ballo in questa storia erano altissimi”. Shirin Ebadi, avvocato per i diritti umani ora esule a Londra, non teme di parlare in modo chiaro sulla morte del collega Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo. “Profondamente addolorata “, si definisce subito dopo aver appreso la notizia. Ma subito dopo al dolore si affianca la rabbia.

Cosa ha pensato quando ha saputo quello che era successo?
“Prima c’è stato il dolore. Poi è scattato anche altro. Quando uno vince il premio Nobel, il sostegno nei suoi confronti non deve limitarsi al giorno dell’annuncio o alla durata della cerimonia. Lo scopo del premio è dare rilevanza e valore alle attività pacifiche del vincitore: ed essere al suo fianco se incontra difficoltà per ciò che dice o fa. Ricordo molto bene che per Aung San Suu Kyi si è fatto molto di più, che ci sono state molte più attività di sostegno rispetto a quanto è avvenuto per Liu Xiaobo. Ma la paura diffusa del governo cinese e delle sue reazioni hanno fatto chiudere un occhio”.

A chi?
“Al comitato del Nobel, ma anche ai Paesi che in Cina hanno interessi economici”.

Lei e gli altri vincitori di Nobel agite in modo autonomo rispetto al comitato: siete riusciti a mantenere un contatto aperto con Liu Xiaobo?

“I sostenitori di Liu non hanno mai potuto avere un visto per la Cina e quindi chi voleva spendersi per la sua causa non poteva visitarlo di persona. Abbiamo fatto quello che potevamo per dimostrare il nostro sostegno per l’uomo e per il suo pensiero. Sono state fatte campagne e raduni: io sono stata parte della campagna internazionale e ho seguito il caso da vicino. Per questo oggi mi sento di dire che la lunga detenzione di Liu e il fatto che al governo cinese non importasse curarlo dimostrano senza ombra di dubbio che Pechino è responsabile della sua morte. Oggi non mi resta che chiedere ufficialmente al governo cinese di non importunare mai più la moglie di Liu Xiaobo e i suoi familiari”.

Che paralleli vede fra la sua storia personale e quella del suo collega cinese? Di fronte a regimi che vi consideravano nemici Lei è fuggita, lui ha scelto di restare…
“Anche Liu voleva lasciare il Paese. Ha più volte cercato di farlo. Ma poi è stato bloccato e non ha potuto espatriare “.

Perché la voce dei dissidenti fa tanta paura?

“Perché i regimi non democratici sanno che solo creando un clima di terrore possono continuare a governare: creano paura perché hanno paura. E la voce alta che può levarsi da qualcuno che è stato insignito del premio Nobel per la Pace fa molta paura. Se non fosse così il governo iraniano non avrebbe perseguitato me: mi hanno confiscato tutto quello che avevo, mi hanno minacciato”.

Che lezione possono trarre da questa morte le persone che come Lei e Liu Xiaobo si battono per cambiare i loro Paesi con la parola e il pensiero?
“Che una persona va aiutata prima che muoia. Che a chi si batte in nome della libertà va dedicata attenzione: prima che la sua voce sia soffocata, prima che muoia”.

Che eredità lascia il suo collega?
“La divido in tre categorie. La prima, la sua vera eredità, è la necessità di rispettare la libertà di espressione. È una lezione che dobbiamo imparare dalla sua vicenda. La seconda è la necessità di sostenere chi si è battuto per la pace e per questo ha vinto il Nobel: spero che questa vicenda sia da lezione al Comitato per il Nobel e che da ora in avanti dimostri più attenzione verso i vincitori. Ma anche tutti noi vincitori dobbiamo essere coscienti di essere membri di una grande famiglia: c’è bisogno di sostegno reciproco. La terza lezione va invece ai cittadini, alla gente comune: spero che quello che è accaduto insegni a tutti a non dimenticare mai le proprie aspirazioni e i propri ideali. Come ha fatto fino alla fine Liu Xiaobo”.


Fonte: Intervista di Francesca Caferri, La Repubblica, 14 luglio 2017

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